Was is a four-letter word

di Marco Colombo

“I don’t do this s**t for the awards or for the compliments – I do it for the music and for the love of playing. End of f****n’ story”. Così si chiude un’intervista datata 2008.

No, ma che qualcuno ci risponda. Qual è l’immagine più pura e vera del rock n’ roll, se non un chitarrista col plettro in bocca (che puntualmente cade) e l’accordo in mano? Non ce n’è, questa ne è l’essenza. Senza fronzoli, senza scrupoli, senza rimorsi. Senza ombra di ostracismo per tutti quei grandi bassisti e terremotanti batteristi che nella storia si sono imposti per indiscutibili capacità, carisma, caparbietà e merito. I cantanti son già abbastanza frivoli da par loro, e non coinvolgiamoli. L’ammirevole devozione per lo strumento, il “maybe I’ll play insane arpeggios and picking today”, someone used to say. Inglesismi, ma l’inglese lo sappiamo. I finlandesi, anche loro, lo conoscono molto bene. Chi è nato nella terra dei mille laghi intorno agli anni ’80, o prima, i film mica li vedeva doppiati. Tutti in inglese, e beccatevi i sottotitoli. Così, la lingua di Londra la impari fin da piccolo, anche perché mica trovi facilmente qualcuno che ti traduca “Back to the future” o “Top Gun” in finlandese.

death metal

“Danger zone”, così lo spettacolo recitò diversi anni dopo, coverizzando per diletto proprio Kenny Loggins in una bonus track. La recita dello stare al mondo – il cui copione, alla fine riporta quasi sempre qualcosa di comune a molti, anzi, a tutti. La “zona di pericolo” è, del resto, sempre dietro l’angolo.

“Sai, io e Jaska (Raatikainen, batterista, n.d.a.) abbiamo fondato la band nel ’93. Già allora, e negli anni successivi, <<I had to deal with bad, bad things, [..] like any human being, you know>>”.

Ognuno di noi, prima o poi, vive momenti veramente molto bui. Non sempre sfociano in atti contro sé stessi, fortunatamente – ma, purtroppo, spesso sì, così come a lui stesso (quasi) accadde al crepuscolo degli anni ’90. Non sempre bastano un grande esordio e un eccellente nuovo album in arrivo, ad aggiustare ciò che frulla nella tua testa. Fatto sta che il successo arrivò, sempre più corposo e solido. La parentesi negativa venne gradualmente spazzata via dalla crescita dell’uomo, dall’evoluzione del musicista, dal rinnovato entusiasmo del giovane rampollo dell’heavy metal assurto, tra l’altro, a protagonista di una delle edizioni di Guitar Hero col brano “If you want peace… Prepare for war”, tratto dall’album “Are you dead yet”, datato 2005.

Aaah, “death metal”. Di questo stiamo parlando? Di quelli che cantano di morte, sofferenza, e distruzione? Questo è il messaggio?
Beh, fermarsi davanti alle apparenze è un po’ come dire “abbiamo sempre fatto così”. Perifrasi peraltro iperpubblicizzata da tempo, ma comunque valida. Ebbene, death metal sia. Nella sua forma più bubblegum metal possibile (cit.), ma sempre death metal resta. Metteteci pure davanti melodic e/o power-influenced, fate che volete, io semplicemente li chiamo Children Of Bodom. Poco importa quanto i vocalizzi del chitarrista possano mettere in subbuglio le oratoriali speranze delle madri di mezzo mondo. Questa musica possiede forza, filosofia, melodia, energia, tecnica esecutiva, coerenza e potenza – ha un’anima.

“Cosa voglio fare da grande? Il musicista, senza ombra di dubbio”. Così Alexi Laiho parlò alla (futura nobile decaduta, ma non parliamone troppo in giro!) metal webzine italiana Babylon Magazine, nel 2001 o giù di lì. Ammirevole dichiarazione d’intenti da parte di un neo ventiduenne sbarcato dal Nord Europa fino in Asia, poco tempo addietro, con “Hatebreeder”, e pronto a conquistare tutto con il nuovo “Follow the Reaper”, terzo di una lunga serie di album capostipiti del genere. D’altra parte, chi inizia a suonare il violino a 5 anni e la chitarra a 9 e fonda una band a 14, a 22 non può che avere le idee chiare su quale strada intraprendere nel proprio futuro.06

death metal

“Devi sempre partire da qualche parte. Ed è la cosa più difficile”. Ma un leader da qualche parte deve sempre saper partire. E il più delle volte finge solo di non conoscere esattamente da dove, consapevole di voler lasciare i propri adepti un po’ nel dubbio, per stimolarli, un po’ nel limbo, per lasciarli fantasticare. Vero è che, tra il nuovo album in uscita e gli altri vari impegni, il pezzo per “100 Guitars from Hel” (laddove “Hel” sta per Helsinki), fu completato giusto giusto al semaforo giallo. Non per dolo: tutto calcolato… o quasi.
“Voglio qualcosa di fresco, voglio qualcosa di nuovo, ed è per questa ragione che ho scelto chitarristi perlopiù al di fuori della scena metal”. Open-minded, per restare nell’anglofonia.

Pre-antefatto. Anno 1995. La scena musicale finlandese, in occasione del consueto evento estivo protagonista ad Helsinki, cercò di allestire un mega show con cento chitarristi contemporaneamente in esibizione sullo stesso palco. Obiettivo parzialmente raggiunto: 50 musicisti aderirono, e scarsino fu l’eco internazionale dato all’evento.

Antefatto. Nel contesto dello stesso Helsinki Festival, ma nella sua edizione datata agosto 2015, l’iniziativa fu riproposta. Questa volta il condottiero dell’epica battaglia a colpi di riff, cui venne affidata l’intera organizzazione dell’impresa, era niente meno che l’idolo locale, già da tre lustri anche internazionalmente riconosciuto – proprio il nostro Alexi.

Giorni precedenti al 14 agosto 2015. Per due settimane, Alexi monitora l’allestimento del palco. Verifica le potenzialità dello show. Calcola rischi e soluzioni. Mostra il brano da lui scritto per l’occasione, di una durata complessiva di circa 15 minuti, ai 100 chitarristi sempre da lui selezionati (su 422 demo ricevuti), lo prova assiduamente con loro, ne mostra le peculiarità, sviscerando ogni possibile criticità in fase live. Rassicura tutti (“Don’t panic, or think you’ve ruined everything. Just turn off your own amplifier, and then jump back in when you’re ready”!). Ognuno sa esattamente cosa fare, così come sono coordinate a loro volta le cinque squadre in cui vengono suddivisi i musicisti, ognuna abbinata ad una specifica parte ritmica. Inutile sottolineare l’importanza della personalità dell’”heavy metal rockstar” che riconosce il sé stesso di qualche anno prima in ognuno dei propri “allievi”, anche se tali per solo qualche giorno.

Il risultato è pressoché scontato: brano accattivante, con chiara matrice heavy, eseguito a mo’ di orchestra sul megapalco allestito proprio nella square tra la Cattedrale di Helsinki e il palazzo del Senato (sì, avete capito bene). Alla fine dell’esibizione, 100 sorrisi sul palco, fan in estasi sulle tribune e sotto lo stage, chitarre bollenti, amplificatori fusi e baristi in delirio. Vola alta la bandiera finnica su un successo praticamente annunciato, nonostante qualche hater abbia successivamente avuto da ridire su alcuni dettagli, assolutamente insignificanti rispetto alla portata dell’evento e del positivo strascico che lascerà nelle mani, nella testa e nel cuore di chiunque vi abbia partecipato.

Essere leader. Sia “nella buona, che nella cattiva sorte”, come si suol dire. Nel mostrarsi per quello che si è, nel trasmettere il proprio entusiasmo, nel mostrare l’obiettivo a tutti senza rubare la scena a nessuno.

“È vero: in fondo, dentro di me, sarò sempre un wild child. Ma mai mi sarei permesso di definirmi ‘musicista’ se non avessi posseduto le grandi basi teoriche che ho avuto la fortuna e la possibilità di studiare, apprendere, assimilare e condividere”.

Sul finire del dicembre 2020, a causa di una lunga, grave malattia, Alexi ha intrapreso un nuovo percorso.
In quel maledetto giorno, il mondo ha perso un leader, un marito, un musicista. …but “at the end, we’re standing up”.

Thank you, wild child. You’ll always be remembered.

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