Fine proiezione.
Silenzio assoluto. Emozione, commozione e smarrimento, perché al finale manca la soluzione.
Non ci sono i buoni tutti da una parte ed i cattivi dall’altra, non esiste una linea di demarcazione precisa tra giusto e sbagliato.
Il film appena concluso non offre soluzioni, ma pone interrogativi, e, di fronte alle tante domande che toccano problemi complessi, spesso e volentieri non sappiamo che fare.
Bianco e nero che si immobilizzano a vicenda, tutti in curva a fare gli ultras e nessuno che usa il ragionamento per fare sintesi e trovare un punto di equilibrio collettivo.
In questi tempi di polarizzazione non riusciamo più a convivere con la complessità.
Questa estate ho visto il film/documentario “Pericolosamente vicini” che racconta la difficile convivenza, in termini di sicurezza, tra uomo ed orso nelle montagne del Trentino. Sono luoghi che conosco e frequento da oltre quarant’anni, a cui siamo profondamente legati come famiglia per le tantissime giornate di vacanza trascorse a contatto con la montagna.
Alle mie sensazioni a fine proiezione aggiungo, per aggiungere qualche tessera al puzzle, la sinossi del film
“In nessun altro luogo al mondo orsi e uomini vivono così vicini come in Trentino. Ma con l’aumento degli orsi, aumentano anche gli incontri pericolosi tra umani e animali.
Un team di 20 persone, tra forestali e veterinari, è incaricato di proteggere sia gli esseri umani che gli orsi, un compito cruciale e delicato.
Durante la Pasqua del 2023 il corpo senza vita del ventiseienne Andrea Papi viene ritrovato nella foresta.
Subito si fa strada un triste sospetto: Papi è stato ucciso dall’orso JJ4.
È la prima morte causata da un animale selvatico in Europa Centrale nella storia recente.
Mentre i forestali cercano di catturare l’orso “problematico” JJ4, il conflitto tra attivisti per i diritti degli animali e oppositori degli orsi esplode.
Questo evento drammatico solleva domande cruciali: JJ4 dovrebbe essere abbattuto? Come gestire il ritorno dei grandi predatori nelle nostre foreste? Quando un orso diventa un animale “problematico”? E, infine, a chi appartengono realmente la foresta e la natura?”
Non voglio avventurarmi in questo argomento perchè non ne ho le competenze, ma vorrei raccontare come da troppo tempo oramai abbiamo smarrito la capacità di muoverci nella complessità per cercare soluzioni.
Non è una questione di luoghi e contesti, a prescindere dalle situazioni il ragionamento viene gettato nel bidone dell’umido per fare posto ad un inutile, infruttuoso e faticosissimo braccio di ferro dove il testosterone cerca di bullizzare e ridurre al silenzio i neuroni.
Quando il tentativo di affrontare la complessità avviene in quell’arena chiamata social, luogo dove opinioni prive di basi fattuali e violenza verbale viaggiano tenendosi per mano, siamo sicuri che difficilmente si potrà venire a capo di nulla perché l’obiettivo non è quasi mai quello di capire, ma semmai di annientare. Di fronte non abbiamo interlocutori o interlocutrici, ma nemici.
Se spostiamo nei luoghi chiamati lavoro il tentativo di comprendere la complessità ecco fare capolino, spesso e volentieri, quell’inibitore collettivo chiamato pregiudizio di conformità.
Le discussioni non iniziano quasi mai perché scatta l’effetto “Calboni” dei film di Fantozzi (“è un bel Direttore!”), e più o meno tutti si accodano al pensiero unico del capo.
Risultato? La complessità rimane avvolta nel cellophane e si cercano soluzioni semplici a problemi complessi che, come è ovvio che sia, non funzioneranno …
Anche il mondo della scuola fatica a muoversi sul sentiero del dubbio, del dialogo e della ricerca delle soluzioni attraverso la fatica del dover rispondere a domande. Una situazione questa che ha mirabilmente descritto Richard Feynman, premio Nobel per la fisica, suonatore in una scuola di samba e mio idolo da sempre, che in un suo libro ha scritto:
“Un’altra cosa che non riuscii mai a ottenere furono le domande.
Alla fine uno studente mi spiegò che se avesse fatto una domanda durante la lezione tutti gli altri lo avrebbero accusato di far perdere loro del tempo mentre tentavano di imparare qualcosa; con le sue interruzioni avrebbe soltanto intralciato il professore.
Era un lavoro di squadra alla rovescia, dove nessuno sapeva cosa fare, e si cercava però di frenare chi si fosse azzardato a giocare da solo. Fingevano di sapere. Se, con una domanda, uno studente ammetteva per un attimo che qualcosa non gli era chiaro, gli altri lo guardavano dall’alto in basso, come se a loro fosse tutto chiaro e il poveretto volesse solo fare perdere tempo.
Spiegai che era utilissimo lavorare insieme e discutere di tutto: ma non c’era niente da fare, perché non volevano fare brutta figura. Una situazione pietosa! Erano persone intelligenti, lavoravano sodo, ma erano imbevuti di un ben strano spirito, di una strana e totalmente insensata idea di “preparazione” che si riproduceva da una classe all’altra.”.
Social, lavoro, o scuola che sia poco cambia, il nostro Everest da scalare resta sempre lo stesso: muoverci nella complessità. Essere disposti ad affrontare sentieri tortuosi ed in salita dove ad ogni tornante occorre avere la capacità di porsi domande, di guardare alla realtà da una miriade di punti di differenti punti di vista per arrivare a trovare un punto di equilibrio che sarà valido in quel momento, ma non definitivo, bensì temporaneo.
Questo ho imparato da un documentario che racconta quanto sia complesso trovare una soluzione che tenga assieme molteplici variabili: la sicurezza vista con gli occhi di noi esseri umani, il diritto degli orsi di fare gli orsi ed il decidere a chi debba appartenere realmente la natura.
Nel mezzo noi circondati dal caos ed incapaci di camminare sulla sottile lastra della complessità.
And in the naked light I saw
Ten thousand people, maybe more
People talking without speaking
People hearing without listening
People writing songs that voices never share
No one dared
Disturb the sound of silence
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