Così come Confucio insegna: una voce forte non può competere con una voce chiara, anche se questa non fosse altro che un semplice mormorio. E così ci ritroviamo a canticchiare un ritornello senza renderci conto degli accenti di batteria che lo rimarcano, così come ci impegniamo a suonare chitarre immaginarie, mentre inopinatamente ignoriamo il giro di basso che fa da fondamenta a tutto il carrozzone. O quantomeno, questo è ciò che spesso accade. La voce chiara del cantante durante un refrain o di una sei corde impegnata in un pacato assolo, anche se non fosse altro che un semplice mormorio, assorbe la nostra attenzione, ne rapisce l’immaginazione. Naturale inclinazione? Riconosciuta capacità del singolo artista? Scaltrezza del produttore nel propinarci la solita melodia giusta al posto giusto? Dipende: dal musicista, dal produttore, e dall’ascoltatore. Resta un dato di fatto: percepiamo una voce. Anche dagli strumenti: anche loro ci parlano. Comunicano con noi. A volte sono onomatopeici, come ne “Il volo del calabrone” (ho sentito qualcuno dall’antibagno urlare “Korsakov!”, “Bettencourt!”), a volte si presentano cinici ed alienanti (riaffiorano i ricordi delle dance floor EBM), altre ancora infinitamente emozionali (pensando a “Marooned” degli dei britannici Pink Floyd). Voce.
Condemnation
Tried
Here on the stand with the book in my hand
Truth on my side
Accusations
Lies
Hand me my sentence, I’ll show no repentance
I’ll suffer with pride
Come si suol dire, buona la prima: Martin Gore presenta il brano, Dave Gahan in pochi minuti fa suo il testo, lo interpreta, e lo mette su nastro in un sol colpo, come se lo avesse scritto di proprio pugno tempo prima. Correva l’anno 1993, e Songs of Faith and Devotion è per eccellenza l’album pre-tracollo, prima della ripresa privata e pubblica dei Depeche Mode col successivo “Ultra” (1997). Nel mezzo, le ben note vicissitudini del singer (e non solo le sue), tra dipendenze, matrimoni falliti e tentativi di suicidio. Tutto regolare, per delle star planetarie. Le esperienze, i successi e i fallimenti, le cadute e le risalite sono tutte racchiuse nella timbrica di Gahan, che con Condemnation ci regala una delle registrazioni migliori della propria carriera. La sua voce qui ci racconta, con eterea, chirurgica pulizia, la codardia e l’ipocrisia del pregiudizio (“If for honesty, you want apologies”) – quasi parlando a sé stesso, si risponde poi con tono più roco e lascivo, manifestando il proprio marcato dissenso (asciutto, “I don’t sympathize”). Dissenso nei confronti di critiche mosse allo stile di vita della band, all’epoca presumibilmente piuttosto variopinto. Disagio provato in maniera energica da entrambi, messo su pentagramma da uno, calato nell’anima dall’altro. Una voce trascinante, avvolgente. Di chi sa cosa sta cantando, di chi ha provato le emozioni vissute da chi ha scritto quelle liriche; di chi crede in ciò che butta nel microfono, dopo averlo percepito sulla propria pelle, dopo averlo rielaborato, dopo averlo esorcizzato. Voce.
Polly says…
Bastano due parole, due. Per descrivere la potenza di un’altra voce, a sua volta mezzo per esprimere un sentimento profondo, sintomo di un animo nobilmente immortale, irrimediabilmente lacerato. L’allora ventunenne Kurt Cobain (anche se la data non è così certa) scriveva nel 1988 Polly, brano incluso poi nell’illustre Nevermind (1991). La registrazione fu, dicevamo? Buona la prima? Naturalmente. Palesemente non ritoccata né abbellita, la parte vocale fu registrata e tenuta così com’era, compreso quell’errore, quella pausa nel cantato, quella mezza frase bloccata nel tempo, quella “Polly says” che alla fine suonerà come un sinonimo di “no, è perfetta così. Nonostante quell’errore”. Molto, molto più importante dare alle stampe un’interpretazione così genuina, arricchita da una svista, piuttosto che proporre qualcosa di perfetto ma… meno istintivo. La voce di Cobain, rispetto a quella di Gahan, si mostra a livello timbrico ancor più morbida ed avvolgente, come ad accarezzare e accudire la triste protagonista del brano; di contro, il tono è costante, oscuro, quasi rassegnato. Malinconico. A tratti pentito. Come il narratore della vicenda, che, grande intuizione di Cobain, è egli stesso a descrivere, allegoricamente, l’indegno stupro posto in atto nei confronti della donna contestualmente “difesa dalla timbrica” del leader dei Nirvana. Una voce introspettiva, ma tuttavia non ancora del tutto matura; nelle frequenze, si realizza la rabbia, l’oblio, la sofferenza, la difficoltà. Voce.
Sfaccettature di voci, di anime, di esperienze. Voci trascinanti, voci garanzia di sicurezza. Voci dirette, talvolta riflessive, ma sempre espressione di personalità.
Voci leader, e da leader. A volte non bisogna prepararsi troppo per dire la cosa giusta al momento giusto: basta seguire l’anima.
Risultato? Buona la prima, corretto?
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