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Una delle sfide più intriganti e complesse per un professionista della prevenzione è quella della costruzione di una visione condivisa del rischio all’interno di una comunità aziendale.
Ogni persona, in conseguenza di molteplici fattori, personali e sociali, ha una propria percezione di cosa è rischioso e su quella base assume decisioni che possono avere un impatto significativo su se stesso, e sugli altri membri della comunità.
Come si può allora armonizzare le percezioni individuali e costruire una visione comune?
Non esiste una ricetta univoca e applicabile in tutti i contesti. Tuttavia, nella mia esperienza, ho individuato alcune trappole dalle quali guardarsi con attenzione.
La prima è quella che chiamo la “trappola dell’assoluto”. “Vai tranquillo, ci sono zero rischi…” e in alternativa “blocca tutto, è pericoloso”. Entrambe queste affermazioni, nella maggior parte dei casi, sono false, e sono conseguenza della credenza che esista, o possa essere raggiunto il RISCHIO ZERO. Nessuna attività umana è esente da rischi, vanno riconosciuti, mitigati, e governati, sapendo che spesso l’inazione comporta rischi (un anno di pandemia è stato denso di esempi in questa direzione).
La seconda è quella del “passato glorioso”. Ovvero l’esistenza di una età dell’oro nella quale tutto era chiaro e comprensibile, nel quale si prendevano rischi, ora presentati come inaccettabili, ma che in realtà non lo erano. Basta affidarsi al lavoratore esperto e navigato, che tutto può affrontare, in virtù dei superpoteri dell’esperienza. Insomma il rischio è semplicemente il risultato dell’insipienza individuale e quindi non serve che diventi una preoccupazione collettiva.
La terza è quella, opposta, del “futuro radioso”. Tutto rimandato ad un futuro indeterminato nel quale, magicamente, la tecnologia risolverà tutti i problemi. E nel frattempo? Non perdiamo tempo con soluzioni intermedie, non cambiamo niente, stiamo solo genericamente più attenti. Ancora una volta l’inazione come soluzione.
Le trappole che ho sommariamente descritto conducono tutte allo stesso inevitabile destino: resto fermo, non cambio, aspetto che qualcosa o qualcuno fuori da me faccia la differenza.
Che fare allora? Proviamo a tratteggiare un percorso, un itinerario:
1. Indicare una aspirazione, il punto di arrivo, la visione: una comunità di persone che scelgono consapevolmente di ridurre al minimo i rischi che sono disposti ad accettare in un luogo di vita, sapendo che lo zero è impossibile, ma che molto può essere fatto, agendo quotidianamente, remando tutti nella stessa direzione.
2. Ascoltare le persone, i loro bisogni, le loro storie, chiarendo che non tutto potrà essere fatto, ma che nessuna idea sarà abbandonata a prescindere.
3. Costruire e raccontare una storia di successo. Far accadere qualcosa di tangibile, che segni la differenza rispetto al passato, e lasci immaginare uno spicchio di futuro.
La prevenzione non è materia da assoluti. Non la si costruisce una volta per tutte, rimane il risultato di un percorso quotidiano di scelte e comportamenti, che in maniera progressiva spostano sempre più avanti il confine di cosa è accettabile e di cosa non lo è, affrontando nuove sfide, che mettono costantemente in discussione quanto fatto fino a quel momento.
Il dialogo tra le persone, la comunicazione capillare, la responsabilità condivisa tra tutti i membri della comunità sono le chiavi per il successo nel viaggio che ci aspetta.
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