#echepalle!
“E che palle!” è l’espressione tipica di chi non ce la fa più. È indifferente che sia perché il collega ti ha fatto per la settecentoquarantaquattresima volta la stessa cavolo di domanda la cui risposta è ormai talmente conosciuta che la potrebbero dare le piastrelle dei bagni o perché per l’ennesima volta ti hanno affibbiato l’incarico frustrante che nessuno vuole, quello che importa è il carico emotivo che ti porti dietro, di cui con l’espressione “e che palle!” cerchi di liberarti.
È un po’ quella che negli ambienti della musica si può chiamare sindrome del liutaio e Ludovico. Ovviamente è un paradosso che mi sto inventando per spiegare la situazione. Il liutaio al termine del suo certosino lavoro di artigiano compone i legni, li incolla, vernicia lo strumento e poi, alla fine, lo accorda. Per l’accordatura il liutaio più bravo utilizza l’orecchio, non quelle diavolerie elettroniche come potrebbe chiamarle mio nonno, girando le chiavi fino ad ottenere il suono perfetto.
Oltre alle capacità manuali e alle conoscenze, è sulla capacità acustica del liutaio che si basa la sua arte. Un liutaio sordo non potrebbe accordare uno strumento, tirerebbe le corde fino a spezzarle perché non potrebbe sentire il suono. Badate bene che ho detto sentire il suono, non ascoltare che è una cosa ben diversa. Ludwig Van Beethoven prima ancora dei trent’anni iniziò ad accusare una certa ipoacusia che poi, con il tempo, peggiorò. Eppure poco più che trentenne compose la sonata per pianoforte n. 14 (1801) conosciuta con il titolo spurio di Sonata al chiaro di luna, una delle composizioni più struggenti e, allo stesso tempo, belle che siano mai state scritte. Come fece il Ludovico Van – come lo chiamava Alex, il protagonista di Arancia meccanica – a comporre musiche immortali nonostante la sordità che lo affliggeva?
Ebbene, le due condizioni che ho testé descritto si svolgono su piani distinti della stessa dimensione: da una parte un liutaio non può essere sordo altrimenti spezzerebbe tutte le corde, dall’altra Ludovico che, seppur sordo, compone spartiti meravigliosi perché mentre il primo sente, il secondo ascolta. Il liutaio fa leva su un principio fisico: le onde sonore comprimono l’aria e fanno vibrare il timpano, la vibrazione viene poi trasmessa all’apparato osseo e da lì, senza ulteriormente indugiare sulla fisiologia dell’acustica umana, al cervello.
Senza l’apparato meccanico il liutaio non potrà mai accordare. Ludovico Van, invece, la musica non la deve sentire ma la suona e la ascolta nella sua mente seguendo le sue emozioni. Lo stesso avviene nelle condizioni di stress: se da una parte meccanicamente percepisco le condizioni stressogene (sento), dall’altra le accumulo e le elaboro (ascolto) nel mio cervello dove suonano uno spartito distorto e complicato da gestire. Sono quelle distorsioni che si accumulano quotidianamente che si traducono poi in manifestazioni fisiche per nulla piacevoli come riduzione delle ore di sonno, inappetenza, manifestazioni psicosomatiche che peggiorano le condizioni lavorative e, soprattutto, quelle personali.
L’importanza della valutazione dello stress lavoro correlato sta proprio qui, nella possibilità di valutare fino a che punto le corde sono tese per capire se si deve intervenire e come.
La valutazione stress lavoro correlato è da sempre estremamente sottovalutata e gestita male, anzi, malissimo. Sono davvero poche le imprese che applicano strumenti parametrici per l’analisi e la gestione delle loro criticità interne. Il problema è che lo stress è un nemico invisibile fino a quando la corda non si rompe. A quel punto neppure la genialità di Beethoven potrà far nulla. L’invito è quindi a non essere sordi e ad ascoltare con la mente la musica che viene suonata dalle vostre persone affinché diventi melodia.
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