Sciogliamo subito il ghiaccio, come ti chiami e quale ruolo rivesti in azienda?
Sono Paolo Zambianchi e mi occupo di tematiche di Cultura e Innovazione nel campo di QHSE. Da novembre 2017 lo faccio all’interno di una grande azienda che costruisce grandi infrastrutture.
Come ti sei avvicinato/a a questo lavoro e cosa ti ha fatto capire che questo è il lavoro giusto per te?
Mentre stavo ancora studiando vidi lo spettacolo di Marco Paolini sul Vajont. Quando ero bambino avevo sentito mio padre parlare di quella tragedia. Nello spettacolo Paolini ricordava che già durante la costruzione della diga 9 operai persero la vita. Mi rimase molto impresso perché in quel momento realizzai che io, da piccolo, non avevo mai neppure pensato che mio padre, che lavorava in fabbrica, potesse non tornare a casa, potesse morire lavorando.
Appena mi fu possibile, al termine degli studi, durante un corso di specializzazione, andai a visitare quei luoghi e realizzai che io, nella vita, avrei voluto fare in modo che tutti i lavoratori tornassero a casa sani e salvi dai loro figli. In quel corso era presente anche la materia “antinfortunistica” e vi era la possibilità di fare la parte di stage in una piccola azienda che si occupava di essa. Mi sembrò un segno. Era il 1998.
Nel corso della tua carriera qual è stato l’episodio che ricordi con più piacere e quale con meno?
Entrato in quella piccola azienda, pensavo che, per fare in modo che tutti i lavoratori tornassero a casa sani e salvi dai loro figli, fosse fondamentale essere un tecnico della sicurezza. Nell’arco di poco mi resi conto i documenti che scrivevo con molta attenzione venivano spesso ignorati dai lavoratori. Non era utile nemmeno controllarli mentre lavoravano, perché divenni consapevole che tornavano a lavorare a modo loro, appena me ne andavo.
Maturai la scelta di diventare un formatore, sempre nel campo tecnico. Preparavo i corsi con grande attenzione e spesso, alla fine, ricevevo un applauso e i complimenti dei partecipanti. Credevo che questo fosse il giusto metro di giudizio. Anche se poi, magari, mi capitava di vederli lavorare in cantiere, senza seguire le indicazioni che avevo fornito loro in aula e che loro, sembrava, condividessero.
Poi un giorno, mi occupai di un corso non tecnico e ci misi tutto me stesso. Alla fine del corso, uno dei partecipanti, anziché applaudirmi o dirmi bravo mi disse semplicemente “grazie”, guardandomi negli occhi. Lo vidi andare via pensieroso.
Nella mia testa tutto ciò risuono come un’esplosione nucleare: avevo capito che, almeno in quel modo, potevo fare la differenza. E ne ebbi la conferma il corso successivo e quello dopo ancora, con persone, che anche a distanza di anni, mi confermavano come avessero cambiato il loro modo di lavorare, rendendolo più sicuro grazie alle riflessioni maturate durante il mio corso e dopo esso.
Quindi, riassumendo, fu quel famoso giorno del “grazie” l’episodio che ricordo con più piacere. Eravamo nel 2004.
Hai mai dovuto affrontare un grave infortunio di un collega? Se sì raccontaci la tua personale esperienza.
Una sera, rientrato a casa, ricevetti una telefonata dal mio capo, in quella piccola azienda. Mi chiese se avessi visto Rocco, il mio collega di scrivania. Quel giorno non si era presentato al lavoro e non rispondeva al telefono. Era stato chiamato dal fratello di Rocco, preoccupato perché nei giorni prima, al telefono, lo aveva sentito distante. Ci ritrovammo fuori casa sua, molto preoccupati.
Purtroppo, scoprimmo che Rocco si era tolto la vita. Fu scioccante perché, nonostante spendessi molto del mio tempo con lui, non avevo colto alcun segnale. Da quel momento compresi quanto anche i rischi psicosociali fossero fondamentali. Non avevo mai pensato che il lavoro e soprattutto poter lavorare in modo sereno, potesse avere un grande impatto sulla nostra serenità.
Il lavoro, dove passiamo la maggior parte del nostro tempo può essere un luogo di rinascita oppure un luogo dove i problemi, magari anche solo personali, vengono a esasperarsi. Capii che non bastava evitare che i lavoratori cadessero dall’alto, come avvenuto durante la costruzione della diga del Vajont, perché anche altri aspetti potevano avere un enorme impatto sulla vita delle persone e sul fatto che tutti i lavoratori tornassero a casa sani e salvi. E forse era pure possibile fare qualcosa affinchè tornassero a casa più sani di quando erano andati a lavorare, come suggerito anche da Paul O’Neil.
La mia visione divenne quella: non solo tutelare i lavoratori prevenendone gli infortuni ma anche aiutarli a trovare gli strumenti per riuscire, sul luogo di lavoro, quella serenità che avrebbe contribuito a migliorare la loro vita, anche extralavorativa. Correva l’anno 2006.
Quali sono le soft skills che un/una professionista del mondo della salute e sicurezza sul lavoro deve assolutamente avere?
Prima di tutto empatia verso le persone che incontra. C’è una frase che adoro che recita: “ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente”.
Di fronte a persone che attuano comportamenti non sicuri è facile arrabbiarsi o volere vendetta (con multe e sanzioni) ma con l’empatia si può provare a comprendere le motivazioni che hanno spinto quella persona e, anche laddove fossero futili, cambiarle e quindi cambiare il suo comportamento.
Non è facile ma credo, anche sulla base esperienze che ho maturato negli anni che ho raccontato fin qui, che sia la più importante, non solo tra le soft skills.
Cosa ti aspetti nel futuro della salute e sicurezza sul lavoro? Pensi che le nuove generazioni siano più attente a queste tematiche?
Sono padre di tre figli, di cui il più grande ha 14 anni.
Parlo con loro e con i loro amici e compagni di squadra nel basket. Parlo con altri ragazzi che frequento nel basket (sono dirigente e arbitro) e vedo una sensibilità diversa e una maggiore attenzione, rispetto a quella che vedo in tantissimi adulti. In particolare, mi rendo conto che con loro, a differenza che con molti miei colleghi e parenti, non è necessario chiedere che indossino la cintura di sicurezza in auto: i ragazzi lo fanno praticamente sempre, spontaneamente, anche se siedono sui sedili posteriori.
Devo dire che anche da parte dei ragazzi neodiplomati o neolaureati che vedo entrare in azienda, noto una maggiore cura verso i propri colleghi e una maggiore voglia di fare in modo che tutti tornino a casa sani e salvi.
Sono molto fiducioso!
Per concludere, quale consiglio daresti a un giovane che si avvicina a questa professione?
Come spero di essere riuscito a trasmettere dalle mie risposte: non perdete la speranza di riuscirci, anche se è difficile, anche se passerete attraverso esperienze difficili, anche se spesso vi toccherà cambiare e ripartire, magari da zero.
Ne vale davvero la pena. Quando tornai a casa dal Vajont mi diedi questo obiettivo: se anche solo una persona in più sarà tornata a casa grazie al tuo operato allora la tua vita professionale avrà avuto senso. Forse, con poca modestia, posso dire di esserci riuscito. Ma non sono ancora soddisfatto e non lo sarò finchè non saprò che tante altre persone avranno deciso di intraprendere una missione simile.
E quindi avanti tutta: vi va di unirvi?
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