Sciogliamo subito il ghiaccio, come ti chiami e quale ruolo ricopri in azienda?
Ciao a tutti, sono Andrea Gobbi, ho 56 anni e da giusto un anno ricopro gli incarichi di RSPP, RSGSSL ed RSGA di Metallurgica San Marco S.p.A., una tra le più importanti aziende italiane del settore metallurgico produttrice di semilavorati in ottone, che si trova a Calcinato in provincia di Brescia.
Come ti sei avvicinato a questo lavoro e cosa ti ha fatto capire che è il lavoro giusto per te?
Ho iniziato ad occuparmi di SSL nel lontano 1995, agli albori della “626”, quando ancora prestavo servizio presso un ente pubblico di Brescia dove lavoravo dal 1988.
Di lì a poco giunse, del tutto casualmente, l’offerta di lavoro che ha radicalmente cambiato il mio percorso professionale. Nel settembre 1996 lasciai il “posto fisso” per avventurarmi nell’allora “settore emergente” della SSL. Operai, prima come collaboratore, poi come socio ed amministratore, in due società di consulenza, svolgendo attività di Consulente tecnico, RSPP esterno e Formatore.
Negli corso degli anni mi resi conto che, troppo spesso, la consulenza esterna si limita (o si deve limitare) a soddisfare i meri adempimenti formali delle disposizioni di legge, senza riuscire a giungere al loro vero obiettivo. Quindi decisi che era il momento di “fare sul serio” e di dedicare tutte le mie capacità ed energie nel fare davvero prevenzione.
Nel 2014 trovai occupazione come RSPP interno di un gruppo di società del settore logistico, ecologico e commerciale di Carpenedolo. Alla fine del 2020 mi presentarono un’offerta professionalmente interessantissima: serviva un RSPP, RSGSSL e RSGA all’interno di una acciaieria di Odolo. Accettai di buon grado questa nuova sfida e mi trovai a confrontarmi con il settore siderurgico, non certo un ambiente facile. Dopo un paio di anni, decisi di accettare la proposta giunta da Metallurgica San Marco, la mia attuale azienda, sia per motivi logistici (si trova molto vicino alla mia abitazione), ma soprattutto perché si tratta di una società decisamente proiettata verso il futuro, che persegue importanti piani di sviluppo, anche sostenibile e negli ambiti di mia competenza, fiera di una forte identità e presenza sul territorio, nella quale mi auguro si possa concludere il mio percorso lavorativo.
Fin dall’inizio mi resi conto che operare in ambito Safety rientrava pienamente “nelle mie corde”. Cosa c’è di meglio che lavorare con l’obiettivo di evitare che la gente si faccia del male? Quale altra attività ti consente di maturare, contemporaneamente, competenze tecniche, comunicative, gestionali e progettuali (oltre che amministrative e finanziarie)? È un’attività sicuramente impegnativa, anche da un punto di vista umano ed emotivo, ma le soddisfazioni, negli anni, sono state sicuramente maggiori delle delusioni e la routine quotidiana è sempre stata del tutto inesistente.
Nel corso della tua carriera, qual è stato l’episodio che ricordi con più piacere e quale con meno?
Direi che le maggiori soddisfazioni che mi ha regalato il mio lavoro sono state due: da un punto di vista umano, mi ha fatto un enorme piacere la reazione dei colleghi dell’acciaieria quando mi sono dimesso: venivano in ufficio o mi fermavano in reparto per manifestarmi il loro dispiacere e per dirmi che ero la prima persona che affrontava la sicurezza in modo diverso, coinvolgendoli ed ascoltandoli, e che con la mia presenza e le mie parole avevo dato loro motivazioni per operare in modo più sicuro.
Da un punto di vista professionale, invece, è stato gratificante, negli ultimi anni ed in modo assolutamente spontaneo e inaspettato, veder aumentare le attestazioni di stima nei miei confronti da parte di tanti colleghi con cui condivido l’attività. Venire interpellato per un parere, chiedermi di tenere un seminario o di fare un’intervista, vedere apprezzati i propri consigli e le proprie opinioni, rappresenta un riconoscimento al mio modo di lavorare e di essere.
Non mi porto nel cuore, viceversa, un episodio così negativo che meriti di essere ricordato. Ci sono stati sicuramente momenti di scoramento, di delusione o anche di rabbia, ma grazie al mio carattere, caparbio ed ottimista, li ho sempre affrontati, superati e relegati nell’oblio.
Hai mai dovuto affrontare un infortunio di un collega? Se sì, raccontaci la tua personale esperienza
Ad un collega, fortunatamente no, ma ho dovuto seguire un incidente mortale accaduto quando lavoravo in acciaieria, l’investimento di un autista esterno da parte di un altro mezzo in manovra. Ricordo benissimo quel giorno: stavo uscendo anticipatamente perché dovevo andare a comprare l’abito per il matrimonio di mio figlio. Ero già nel parcheggio quando mi è squillato il telefono ed una voce terrorizzata mi ha detto che “era morta una persona”. Tornai di corsa in azienda e trovai, nel piazzale, i due mezzi fermi, uno dei quali con la vittima dell’incidente ancora sotto le ruote posteriori del semirimorchio. Poi il caos: Carabinieri, Vigili del Fuoco, eliambulanza, ATS, autogrù… Di seguito le testimonianze, i rilievi, le ipotesi e le supposizioni, la difesa delle proprie ragioni, la ricerca della “documentazione probante”. Il tutto si svolse in un’atmosfera irreale, mi sentivo come fossi in un film. Ero da solo a gestire tutte le richieste dei vari enti intervenuti. Particolarmente impressionante fu la rimozione del cadavere da sotto il mezzo. Cercavo di concentrarmi per evitare di perdere la lucidità, per non farmi sopraffare dalle emozioni. Arrivai a casa dopo le 9 di sera e, la prima cosa che feci fu abbracciare mia moglie e sfogare la tensione in un pianto liberatorio.
Nei giorni successivi fu davvero toccante il momento in cui il Datore di Lavoro dell’infortunato ed un suo collega vennero a recuperare il mezzo. Svuotarono la cabina dagli effetti personali dell’autista: ciò che restava di una vita racchiuso in due sacchetti della spesa.
Sostanzialmente l’acciaieria non ha avuto particolari responsabilità nell’accaduto, ma da questa esperienza mi sono rimasti il dubbio di non aver fatto abbastanza e l’angoscia di come mi potrei sentire nel caso un infortunio del genere dovesse capitare ad un collega, ad una persona che conosco.
Quali sono le soft skills che un professionista del mondo della salute e della sicurezza sul lavoro deve avere?
Sicuramente oggi non bastano più le sole conoscenze tecniche, che pure devono fare parte del bagaglio culturale del Tecnico SSL. La prevenzione non si fa solo rendendo sicuri i luoghi di lavoro, gli impianti, le attrezzature ed i processi, ma è, in buona parte, determinata dagli atteggiamenti e dai comportamenti delle persone. Per questo motivo, chi vuol fare prevenzione deve anche essere capace di comunicare, di coinvolgere, di convincere e di sensibilizzare.
Inoltre, è necessario saper organizzare, gestire e condurre un sistema (anche non certificato) che permetta di controllare e governare tutte le attività necessarie per raggiungere, assicurare e migliorare le condizioni di sicurezza.
Non ultimo, deve essere in grado di confrontarsi con l’Alta Direzione e guidarla, per quanto possibile, nelle sue scelte, facendo in modo che vengano considerate anche le esigenze prevenzionali.
Cosa ti aspetti nel futuro della salute e sicurezza sul lavoro? Pensi che le nuove generazioni siano più attente a queste tematiche?
Purtroppo, mi pare proprio di no. La situazione di mercato, sempre più fortemente soggetta alle altalenanti situazioni economiche, politiche e sociali, rende le imprese sempre più fragili. I Datori di Lavoro “sacrificano” quanto non prettamente legato alle esigenze produttive nell’ottica del contenimento dei costi e la SSL fa quasi sempre parte di questi tagli (tra l’altro, specialmente nei settori più a rischio).
I lavoratori più giovani sono “vittime” di questa fluidità, oltre che della precarietà dei contratti che offrono loro retribuzioni sempre più insufficienti al costo della vita. Per tali motivi, tendenzialmente, si “adattano” alla situazione esistente, limitandosi a fare ciò che viene richiesto loro, senza interagire in modo proattivo anche quando si tratta di tutelare la loro incolumità e la loro salute.
I nuovi Tecnici SSL, complici la complessità della rete normativa, le informazioni spesso inesatte e contrastanti che trovano ormai troppo facilmente in rete e grazie alla possibilità di qualificarsi con una manciata di ore di formazione, spesso non sono sufficientemente preparati ed i loro errori vengono pagati dalle aziende e dai lavoratori. Inoltre, la professione non è più remunerativa come un tempo e la concorrenza, sempre più numerosa, contribuisce a mortificare i compensi, abbassando inevitabilmente la qualità del lavoro reso.
Ci sarebbe bisogno di un “grande reset”: obblighi di legge più semplici ed applicabili, adatti alla natura del tessuto produttivo italiano. Incentivi veri, che premino le idee, non la velocità con cui si invia un click. Regole di mercato che sostengano le aziende virtuose ed escludano quelle “furbe”. Retribuzioni dignitose per lavoratori e professionisti SSL. Una giustizia più equa che responsabilizzi tutti i soggetti della sicurezza, lavoratori compresi. Una formazione degna di tale nome. Un sistema più rigido di qualificazione e tutela dei professionisti.
Solo cambiando decisamente rotta le cose potrebbero migliorare, ma non mi pare che attualmente siano presenti né le capacità, né la volontà di farlo. Le uniche soluzioni, che vengono avanzate, solitamente a seguito di un infortunio particolarmente grave o nei momenti di commemorazione, sono sempre le stesse da anni. “Se vuoi ottenere qualcosa che non hai mai avuto, devi fare qualcosa di diverso” diceva Albert Einstein.
Per concludere, quale consiglio daresti ad un giovane che si avvicina a questa professione?
Il nostro lavoro coinvolge gli “altri”. Per tale motivo dobbiamo essere capaci di trasmettere la nostra attenzione per la prevenzione, dobbiamo convincere della necessità di tutelarsi lavorando nel modo più sicuro possibile. Dobbiamo essere in grado di innescare un processo lento, ma inesorabile, di crescita culturale che porti, da un lato, all’applicazione delle misure preventive e protettive e, dall’altro, ad una maggior coscienza dei propri limiti e della conseguente necessità di tutelare la propria integrità fisica e la propria salute attraverso queste misure. I lavoratori sanno come lavorare in sicurezza, bisogna sradicare le convinzioni che li portano a non farlo.
Solo in questo modo si può arrivare a quella che chiamo “abitudine alla sicurezza”, ovvero ad operare automaticamente in maniera sicura, senza doverci pensare prima, come quando ci allacciamo la cintura di sicurezza appena saliti in auto. Un modo diverso di chiamare quella che viene definita “cultura della sicurezza”.
Non voglio arrivare a dire che occuparsi di SSL costituisca una “vocazione” come per chi opera, per esempio, nella sanità, ma azzarderei un’analogia almeno per quanto riguarda l’atteggiamento con cui si vive questa professione. Non è un lavoro come un altro, non basta “fare il compitino”, bisogna crederci. E se non credi in quello che fai, come pensi di riuscire a convincere gli altri a crederci?
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