Once upon a flight

di Marco Colombo
Once upon a flight

Da Los Angeles a Goteborg non esiste un volo diretto, attualmente. Quindi, ce lo inventiamo noi.

…”Ladies and gentlemen, welcome aboard Rockin’ Airlines flight 666-6, with service to Gothenburg. Today is Monday, July 3rd, 2000, and the local time at our destination is currently 05:00 a.m. We are expecting a flight duration of approximately 11 hours and 15 minutes. Please place your larger carry-on items in the overhead compartments and smaller items under the seat in front of you. We kindly ask you to take your assigned seat and fasten your seatbelt.

…Ladies and gentlemen, the boarding process is now complete. Please ensure your seatbelt is securely fastened, your tray table is stowed, and your seatback is in the upright position. Electronic devices must now be set to airplane mode.

Cabin crew, please prepare for takeoff”.

 

Le maschere di ossigeno potevano proteggerla dall’ipossia, ma non dal Mostro. La cintura di sicurezza poteva fissarla al sedile, ma non saldarla alla realtà.

Eppure, qualcosa la rassicurava: la musica.

Prese quindi le cuffiette dalla scintillante borsetta stranamente fucsia, le portò alle orecchie, e inserì il connettore audio da 3,5 mm nel suo nuovo lettore mp3, altrettanto scintillante, altrettanto fucsia. Aveva appena sostenuto con discreto successo un esame di algoritmi, narrando in maniera sospettosamente fiera delle arzigogolate vicissitudini dei lossy audio formats. Questo la faceva sorridere – di un sorriso stretto, finemente malizioso. “Non è poi una gran soddisfazione”, realizzò, “ma almeno è una. Un passo alla volta. Ora vediamo di trasvolare questo maledetto oceano”. Undici ore di volo, percepite ventidue: stare costretta non era mai stato pane per i suoi denti, e non restava scelta che evadere con la mente. Dopo un periodo di sussulti, si addormentò infine profondamente, tremando in modo impercettibile il freddo d’alta quota, avvolta in quella ruvida, anonima coperta usa e getta.

“There’s a shark in the pool

And a witch in the tree

A crazy old neighbour and he’s been watching me

And there’s footsteps loud and strong coming down the hall

Something’s under the bed

Now it’s out in the hedge

There’s a big black crow sitting on my window ledge

And I hear something scratching through the wall 

Oh what should I do, I’m just a little baby

What if the lights go out and maybe

I just hate to be all alone

Outside the door he followed me home”

 

Diverse ore dopo, Ambrosia Parsley1 non le negò un risveglio agrodolce, tanto soave quanto crudele, parabolando ansie ed afflizioni a lei fin troppo familiari tramite il racconto di surreali incubi notturni, il tutto in salsa pop noir. “È fuori dalla porta, mi ha seguita fino a casa. Eh, sarà il Mostro”, sogghignò amara, ritornando mentalmente alla frase appena ascoltata. Dopo aver sbadigliato sommessamente, si ribadì: “Lo vincerò”.

L’aereo avrebbe toccato terra entro un’ora, poi sarebbe stata finalmente Europa. Più di tre settimane di studio e lavoro in Svezia, durante il periodo più mite dell’anno, piacevolmente piovoso, quasi allegro. Il lancinante caldo californiano era momentaneamente alle spalle, così come iniziavano ad attenuarsi le suadenti vibrazioni del sound di casa, che l’avevano accompagnata fino all’inquieto risveglio di qualche attimo prima.

“Now goodnight moon

I want the sun

If it’s not here soon

I might be done

No it won’t be too soon ‘til I say

Goodnight moon

 

No, it won’t be too soon ‘til I say, goodnight moon, iniziò a ripetere energicamente tra sè e sè. “Sarò io a decidere quando dire buonanotte, Luna, ora voglio il Sole”. Il Mostro attira, attrae, inganna. Lo si vuol dominare per non esserne succubi, la mente crede sia corretto autoconvincersi di possederne il controllo.

Fino a quando non arriva il momento in cui è fuori dalla porta di casa: non resta allora che aggrapparsi alle parole di qualcuno che provi, racconti le paure umane e cerchi di farle apparire folli quanto uno squalo in una piscina. E ci si nutre di queste visioni transdimensionali in cui le angosce appaiono surreali, svuotate. Decido io, quando finirà questa tortura. Decido io, quando smetterò di avere paura. In un limbo tra coraggio e terrore. Con Ambrosia, se la intendeva su questo. Condividevano virtualmente la speranza di dissacrare le proprie agonie, conscie di questa necessità concreta, materiale.

Ineluttabile, la condizione umana di essere esposti al rischio, alla solitudine, allo smarrimento, all’alienazione. “Weltschmerz!” urlò, sfogandosi dopo essersi riempita i polmoni e le viscere di quella fresca aria nordeuropea, rubata sotto un albero in un viale di fronte all’aeroporto.

“Mi dia questo, per favore!”, incalzò con gentile fermezza solo pochi minuti più tardi, quando al primo negozio di dischi lungo la strada si fermò ed entrò, attratta dalla copertina di “Clayman”, ultimo lavoro  della band di casa In Flames, fresco di pubblicazione.

L’impeccabile ma impacciato commesso sbaragliò sorprendemente un incomprensibile: “Clayman är ett fantastiskt album, men deras stil har förändrats mycket jämfört med tidigare. Mer melodiskt och finslipat, men fortfarande kraftfullt!”, farfugliando in seguito una traduzione in un inglese inaspettatamente stentato: “Clayman è album fantastico, ma stile cambiato molto un po’ rispetto al passato”. “Più melodico e pulito, ma ancora tanto potente!”, sottolineò infine, agitando il pugno chiuso dietro al bancone del negozio.

189 corone ben spese, mi auguro”, bisbigliò lei sottovoce, vista l’impellente necessità di nuova musica. Uscita dal negozio, inserì il disco – stavolta – nel suo grigio e ormai obsoleto Discman e premette il tasto play, maledicendo le vibrazioni dell’autobus, l’assenza del dispositivo anti-shock, e quel pesante bagaglio così carico di vestiti, speranze, timori.

“Since the day of my departure

I’ve been stumbling through reality

I play my symphony in reverse

As I aim for that special path

Be gentle to the tear in this I

Lonesome arms, lost its wings again”

 

Braccia solitarie perdono le loro ali, ancora una volta. Il senso di abbandono è perversamente comodo, totalizzante. Un po’ come i malinconici arpeggi del duo Björn Gelotte/Jesper Strömblad2, qualcosa di sideralmente lontano dalla chitarra slide di Duke McVinnie degli Shivaree, eppure così sentimentalmente vicini, nello struggente saper descrivere in note ciò che il cuore esprime in battiti. Finì per amare quel disco, lei che con l’heavy metal non aveva molta dimestichezza – fino ad allora. “La giovane marmotta del negozio aveva ragione”, rifletté compiaciuta.

“Buy me a trip to the Moon

So I can laugh at my mistakes

You see, I can see the end from here

From this perspective, it looks kind of silly

Satellites and astronauts

Tell me there are greater things ahead”

 

Visti dal grande infinito, quanto diventano insignificanti i nostri problemi, le nostre ossessioni, i nostri desideri. “Astronauti e satelliti, vi prego, ditemi che c’è qualcosa di più grande davanti a noi… Che supereremo i nostri apparenti limiti, diventeremo migliori, magari non più pacifici ma meno ciechi, meno egoisti, chissà, …O quantomeno… Più… sicuri”. Perché la nostra mente non accetta di essere “soltanto un’altra minuscola particella momentanea in un universo indifferente”, ma vuole qualcosa di più. Pretende certezze, chiede garanzie, …vuole sopravvivere… in sicurezza. Non di meno, uno degli svedesi più conosciuti in ambito heavy, Anders Fridén, vorrebbe vivere in armonia, in pace, sgravato dal peso di una condizione umana fallace e costantemente in pericolo. Il singer degli In Flames chiede a gran voce un biglietto per la Luna, così da poter osservare da lontano i propri errori, le proprie incertezze, e provare sollievo nel vedere come sembrano “silly”, stupidi, fuori dal loro piccolo contesto. Ma si tratta solo di un viaggio virtuale, totalmente fittizio. Anche lui dovrà affrontare il proprio Mostro, fatto di insicurezze e mortalità, affidandosi alle limitate energie concesse agli esseri finiti. Del resto, l’illusione si era spenta non a caso proprio in quella che nel disco è la canzone precedente a “Satellites and astronauts“, laddove l’uomo di argilla, protagonista della traccia (“Clayman”), realizza che la propria forza ed invincibilità nient’altro sono che una scultura fragile, destinata a crollare.

“Ho dovuto volare 8.800 chilometri e stare lontana da casa tre settimane, per constatare con i miei occhi che anche dall’altra parte del mondo si soffre, alla stessa maniera. Si ha paura, allo stesso modo. E tutti combattono, nonostante le cosmiche incertezze, credendo nel futuro”. E con un sorriso sereno, estrasse dalla borsetta il suo fidato lettore mp3 di un fucsia scintillante. Anche la borsetta era fucsia – stranamente.

“Ladies and gentlemen, we are now beginning our descent into Los Angeles. Please ensure your seatbelt is fastened, your seatback is in the upright position, and your tray table is stowed. We will be landing shortly. Please remain seated with your seatbelt fastened. Cabin crew, please prepare the cabin for landing. We expect to land in approximately 30 minutes.

…Ladies and gentlemen, we have just landed in Los Angeles. Please remain seated with your seatbelt fastened until the seatbelt sign has been turned off. Please be careful when opening the overhead compartments, as items may have shifted during the flight. The local time is 6:00 p.m., and the temperature is 86° F.

Thank you for choosing Rockin’ Airlines, and we hope you have a pleasant stay in Los Angeles”.

 

Los Angeles era arida. Intravide il mostro, e la luna tramontare lentamente3.

 

 

 

1 Cantante della band californiana Shivaree, il cui celebre singolo di debutto fu la citata “Goodnight Moon”, uscita come singolo il 24 marzo 2000.

2 Chitarristi degli In Flames sull’album “Clayman”, uscito il 3 luglio 2000, da cui è ripresa “Satellites and astronauts”.

3 Il 28 luglio 2000, a Los Angeles la Luna tramontò alle 18:12.

 

 

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