Il Festival di Sanremo ce lo siamo lasciati alle spalle e scommetto un mio bracciale che tra un anno molti di noi faremo fatica a ricordare i vincitori. Ero in dubbio se parlarne o meno, il web è già intasato che non ne possiamo più. Non parlerò degli imperatori dei social perché non hanno bisogno dei miei tag e perché mi inquieta l’influenza che hanno sulle masse.
Parlerò di Riccardo Fabbriconi. Anche in questo caso se ne è dette di tutti i colori e questa settimana si è consolidata la mia impressione che il problema di fondo è la tossicità del ruolo genitoriale dei giorni nostri.
Il fatto è noto.
Sale sul palco come super ospite, canta per un po’ ma poi interrompe la sua performance perché non ha il ritorno in cuffia. Un problema non da poco, sapendo che quando sei sul palco non percepisci i suoni nitidi come in sala. La sua performance, quindi, viene sostituita dall’altra performance dei calci alle rose decorative del palco con insistenza. Chiusura della scenetta il suo sorriso sbeffeggiante rivolto sul pubblico.
C’è chi dice che era tutto preparato, c’è chi dice che allora dovremmo parlare anche delle chiappe di Elodie oppure degli innominabili. Un amante del rock dovrebbe poco stupirsi abituato a chitarre, batterie e aste dei microfoni devastate sul palco, come successe con i Placebo proprio sul palco dell’Ariston. Tutto vero, fino ad un certo punto. Anzi, se davvero era stato tutto preparato dovremmo parlare di omicidio preterintenzionale della comunicazione e ti spiego il perché dal mio punto di vista.
Lo show è finzione, in molti lo sanno, ma in molti altri lo vivono come realtà. A prescindere dall’impalcatura che c’è stata dietro quello che arriva è prepotenza, presunzione e assenza di rispetto. Sensazioni che hanno avuto in molti, ma in molti altri giovani può aver suscitato l’esclamazione “quanto sei figo, hai fatto bene”. Il risultato è inculcare nella mente dei giovani che tutto è concesso, che puoi spaccare tutto in nome del tuo ego e chi se ne fotte se qualcuno si lamenterà.
La cultura della sicurezza e la sicurezza sul lavoro in particolare, si fondano sul sacrosanto principio del rispetto. Un imprenditore sceglie la via della cultura della sicurezza perché rispetta la vita dei suoi lavoratori e delle loro famiglie. Lo stesso vale per manager, preposti e anche tra i lavoratori consci che la vita è la prima cosa che conta e vale la pena preservarla.
Chi fomenta la cultura dell’(in)sicurezza se ne sbatte di tutto ciò e, se la vita fosse un fiore, con superbia la prende a calci perché pensa di essere sopra a tutto e sopra a tutti. E, caro il mio Amadeus, portare in conferenza stampa le scuse del bimbominchia dal bel faccino ti rende complice di questo tipo di cultura, tanto quanto ogni genitore quando prende le difese di un figlio invece di prenderlo per la collottola. Oggi viviamo in un mondo dove nel torto passa l’ammonitore che viola i diritti, la privacy e la sensibilità di questi poveri agnellini. Poco conta se hanno sfasciato un banco di scuola, se impallinano la prof o prendono a sberle il più debole.
Ti lascio con una domanda. Se uno di questi interpreti della Gioventù bruciata dei giorni nostri domani diventasse il datore di lavoro di tuo figlio, saresti sereno pensando alla sua salute e alla sua sicurezza?
Educare al rispetto è come gettare le fondamenta della cultura della sicurezza.
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