Il sacro e l’economia: ossimori?
Il capitalismo è un gran conoscitore dell’animo umano, delle sue esigenze e delle sue debolezze. Ce lo insegna il filosofo Silvano Petrosino, evidenziando che il successo del capitalismo sta nella sua conoscenza del segreto che tutti gli atti umani, tra cui il consumo, sono abitati da fantasmi – che facilmente diventano idoli -, e nella sua conseguente capacità di sottoporre a investitura un prodotto per trasformarlo in qualcosa di desiderabile, tramite la pubblicità e gli influencer. Quando, infatti, l’essere umano desidera qualcosa proprio perché ha “quella marca lì”, il fatto non è da sottovalutare perché “quella cosa lì” si configura come fantasma, o, come diceva Lacan, psicanalista e filosofo francese, diventa un appoggio del desiderio umano.
Luc Boltanski, sociologo, ci ricorda che «il capitalismo si nutre delle parole e delle idee dei suoi nemici». Il capitalismo usa i nostri limiti e le nostre debolezze per il proprio tornaconto utilitaristico, sfruttando il nostro essere costituiti ontologicamente da un desiderio di “non si sa che cosa”, “di quella marca lì”, esigendo di avere appagato «tutto», «sempre» e «subito»: il consumismo è la declinazione su larga scala di questa esigenza, una sorta di idolatria per le masse, a basso costo.
Non solo. L’attuale forma economica mainstream rappresenta un mondo ben più sacro di quanto crediamo. Nel capitalismo, ce lo insegna Luigino Bruni, economista civile, sono presenti dogmi indiscussi (la crescita illimitata, il consumismo, il profitto, la meritocrazia, per citarne solo alcuni), sacerdoti idolatrati (i manager), pratiche sacrificali accettate come necessarie (orari e carichi di lavoro inumani, settimane lavorative di sette giorni, gerarchie organizzative impersonali, etc.), comunità chiesastiche ambite (le imprese), templi venerati (le business school) e liturgie osservate (le riunioni aziendali con tutto il loro portato prima e dopo).
Ancora di più, ci ricorda sempre Luigino Bruni che «la fase dell’economia di mercato che cresce offrendo merci a individui [ndr, si vende tutto, sempre e subito] sta lasciando il posto a una nuova fase di consumo comunitario. Il nuovo marketing del XXI secolo non presenta più i prodotti con le loro caratteristiche tecniche o merceologiche. Non ci ammalia descrivendoci le proprietà delle merci: ci incanta raccontandoci storie. Imitando i nostri nonni, imitando la Bibbia. La nuova pubblicità è sempre più una costruzione di racconti con il tipico linguaggio del mito. Il suo scopo è attivare le emozioni del consumatore, il codice simbolico, i suoi desideri, i suoi sogni, i suoi bisogni».
Le stesse mission e vision aziendali raccontano del tentativo di sacralizzare il mondo economico, di uno sconfinare in un culto, in una nuova religione o, addirittura, nella idolatria.
Emergono, a questo punto, alcuni sorprendenti paradossi.
Il capitalismo è una nuova forma di culto, il consumismo un’idolatria. Eppure, il primo paradosso è che proprio questo mondo economico investito di una nuova forma di sacralità è incapace, a causa dei suoi presupposti culturali, di offrire una vera sacralità e spiritualità di cui l’essere umano ha desiderio. Presupposti culturali dell’economia politica, infatti, per cui l’uomo economico è homo homini lupus, un soggetto auto-interessato, un idiota sociale, massimizzatore della sua sola utilità, generatore di scarti (di materie prime, di persone). Il capitalismo chiede tanto, a volte tutto, a fronte di una ridicola promessa (una carriera, ad esempio), che non può competere con le promesse offerte dai veri spazi sacri dell’umanità. Una nuova religione, dunque, senza nessuna promessa a venire.
Il secondo paradosso deriva dalla contrapposizione del fatto che a fondamento di ogni scambio economico ci sono le relazioni tra le persone, mentre in troppe organizzazioni economiche si prosegue insistentemente nella trascuratezza proprio dei beni relazionali (di quei beni, cioè, prodotti dalle relazioni, legati in un circolo virtuoso alla fiducia, cooperazione e reciprocità). Il capitalismo conoscerà e sfrutterà le nostre debolezze, ma, in fondo, non le comprende davvero (o meglio, le conosce ma le trasforma in un boomerang) indirizzandoci, da decenni, verso un’infelicità e una frustrazione di massa. La disattenzione della cura delle relazioni è ciò che di più grave sta avvenendo nelle organizzazioni, anche se paradossalmente crescono gli studi, gli uffici e i consulenti delle funzioni Risorse Umane (ed anche il termine HR meriterebbe riflessioni specifiche).
La prima conseguenza è che i modelli economici attuali, ereditati dal passato, paiono piuttosto stretti per gran parte della popolazione del Primo Mondo. Non solo, infatti, la questione ambientale ci ha obbligato a ripensare l’uomo economico a cui siamo abituati, ma da più parti si leva la voce che l’economia politica attuale non è più in grado di rappresentare il mondo di oggi: come affronta le disuguaglianze crescenti e la tragedia dei beni comuni? e come gestisce il paradosso della felicità? (per paradosso della felicità si intende il fatto che al superamento di una certa soglia di reddito la felicità diminuisce, a dispetto della credenza comune, per la mancanza di cura del bene relazionale).
Possiamo ben dire che queste problematiche ottengono insufficienti risposte da parte dell’economia politica attuale, e che parte del Primo Mondo vorrebbe aprirsi a un paradigma economico differente, in grado di affrontare le questioni citate sopra, trascurate nei secoli.
Una seconda conseguenza è che importanti capitali a disposizione delle aziende non sono mai stati misurati e, dunque, valorizzati e rigenerati, sebbene sia noto che i capitali siano importanti se sanno generare reddito. Mi riferisco a tutti i capitali intangibili (il capitale umano, il capitale relazionale, il capitale intellettuale e organizzativo), così come il capitale naturale: tutti trascurati dall’economia politica. Aggiungo, ed è questo il punto che mi preme evidenziare, che anche il capitale spirituale delle organizzazioni è ignorato, e, di conseguenza, consumato senza essere rigenerato. Addirittura, sono pochissimi coloro che hanno studiato, definito, approfondito e inquadrato il capitale spirituale di un’organizzazione.
Spero che non sorprenda questa richiesta di studio del capitale spirituale: già nella Bibbia, così come in altri testi sacri, troviamo le prime parole economiche: ricchezza, riscatto, benevolenza, salario, talenti, meriti. Già tra Agostino e Pelagio è acceso il dibattito su meriti e ricchezze. Col monachesimo e i primi ordini mendicanti nascono i germogli delle teorie sulla moneta, sulle banche, sull’interesse, sull’economia di mercato, sull’uso senza proprietà, il giusto prezzo, il commercio internazionale.
Servirebbero maggiori scambi e approfondimenti tra economisti e teologi, i primi troppo poco umanisti, i secondi troppo poco economici. Queste richieste di contaminazione non intendono aspirare alla formazione di aziende religiose, ma a ripensare a quale sacro viene “venduto” alla massa di persone, a quali idoli continuiamo a idolatrare, a quali promesse crediamo, a quale cammino intraprendiamo da decenni.
Da un lato, dunque, l’economia politica attuale non dà più le risposte che servono (le ha mai date?), dall’altro, aspetti essenziali della vita sociale delle persone (soprattutto nel mondo del lavoro) vengono da sempre trascurati, consumati e mai rigenerati, con la conseguenza che le questioni urgenti attuali determinano uno spartiacque tra il prima e il dopo. Viviamo in una società che non ha saputo evitare i disastri ambientali, le disuguaglianze crescenti nel mondo, le guerre continue, il degrado culturale, il malessere diffuso, anche all’interno delle organizzazioni economiche e le continue morti sul lavoro. Che fare?
La risposta migliore ce la dà l’economia civile, paradigma economico nato in Italia nel ‘700, dall’abate Antonio Genovesi. O meglio, la tradizione dell’economia civile eredita la filosofia aristotelica del bene comune, il passato delle virtù civiche romane, transita per l’esperienza del monachesimo dell’Alto Medioevo, per gli ordini mendicanti del Basso Medioevo, per l’Umanesimo civile della prima metà del XV secolo, fino ad arrivare alla scuola napoletana di Genovesi e quella milanese di Verri e Beccaria del XVIII secolo. Dopo essere stata dimenticata per due secoli, a causa del predominio dell’economia politica nata dall’illuminismo scozzese, oggi è tornata a rivivere grazie alla forza e all’intelligenza di economisti italiani come Stefano Zamagni, Leonardo Becchetti, Elena Granata, Luigino Bruni, e altri.
È una teoria economica di mercato fondata sui principi di reciprocità, fraternità e gratuità, che pone al centro l’uomo, ed è finalizzata al bene comune (concetto differente rispetto al bene totale. Nel bene comune il prodotto dei fattori è zero se anche solo un fattore è pari a zero, nel bene totale la somma totale può essere positiva anche se alcuni addendi sono pari a zero).
I presupposti culturali dell’economia civile, in contrapposizione a quelli dell’economia politica, messi tra parentesi, sono che l’uomo economico:
- è homo homini natura amicus (a dispetto dell’homo homini lupus)
- è empatico e ricercatore di senso (a dispetto del solo masssimizzatore del profitto)
- ha come fine il bene comune misurato con indicatori quali il BES, ossia stock di beni economici, relazionali, ambientali, spirituali di cui una comunità può godere su un territorio (a dispetto del bene totale, misurato dal PIL)
- vede l’impresa come creatrice di valore per tutti coloro che interagiscono con essa, ricca di senso e di impatto sociale (a dispetto dell’azienda come ente creatore di solo profitto e povero di senso e di impatto sociale).
Le parole chiave dell’economia civile sono: la Fiducia, la Comunità, la Fraternità, la Gratuità, la Felicità, la Reciprocità, la Sussidiarietà circolare, i Beni relazionali e la Generatività.
Nel 1765 Antonio Genovesi scrisse che: “E’ legge dell’universo che non si può fare la nostra felicità senza far anche quella degli altri”.
Con lo sviluppo dell’economia civile, che oggi continua a rodere spazi sempre più ampi in tutti i settori, profit e non profit, fiorirebbe l’essere umano in senso integrale, nella sua reale sacralità (pensate a tutto il tema della salute e sicurezza sul posto di lavoro, al tema del benessere, delle pari opportunità, della diversità e inclusione, etc.). L’economia civile sta lì, nelle persone come portatrici di senso, di sacro, di talenti e di valore, là dove altri non vedono nulla, se non il profitto.
Con lo sviluppo dell’economia civile e della persona possiamo iniziare già sin d’ora a fare un gran bel esercizio di immaginazione, vedendo cambiare le cose che non vanno. Ognuno può fare il suo.
Perché nessun posto è dannato. E nessuna persona esclusa. (Elena Granata, al corso SEC di valutazione d’impatto, 2022).
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