La sostenibilità nella ristorazione

di Silvana Carcano
La sostenibilità nella ristorazione

Essere ambasciatori della consapevolezza alimentare

 La gastronomia, intesa non solo come il semplice nutrirsi ma come l’arte di preparare e condividere il cibo, è un elemento che il filosofo Silvano Petrosino descrive come espressione della sacralità umana. Il cibo non è solo una necessità biologica e non riguarda solo il nutrimento del corpo, altrimenti mangeremmo tutto ciò che madre natura ci regala senza apparecchiare nessuna tavola, senza usare nessuno strumento di degustazione e senza abbellire cibo e piatti di portata. Il cibo, infatti, richiama anche a un piacere estetico, all’incontro con l’altro e alla celebrazione della vita. La gastronomia rappresenta, dunque, un atto di cura e di attenzione attraverso cui l’essere umano celebra la propria umanità e riconosce il valore sacro del vivere insieme.

Non so voi, ma io ho trovato pochi posti gastronomici in giro per l’Italia, ma tanti, tantissimi, in cui ho semplicemente mangiato per nutrirmi.

Un posto sicuramente gastronomico è il ristorante di Claudio Rugna, il titolare di Costa Ristorante, a Cinisello Balsamo, un luogo in cui la gastronomia alla Petrosino la fa da padrona.

Ho voluto intervistare Claudio affinché il suo speciale modo di fare ristorazione sia conosciuto il più possibile e possa entrare in contatto con tutti gli altri ristoratori che, come lui, hanno a cuore certi valori di questo meraviglioso settore, che, in Italia, può essere strategico.

 

Claudio, oggi tutti vogliono essere sostenibili, ma troppo spesso si tratta di una sostenibilità di facciata. Nel settore della ristorazione, poi, mi pare di capire che alcuni ristoranti si fregiano del titolo di sostenibilità solo perché fanno il servizio del doggy bag, è così?

Purtroppo, quello che vedo è un settore che sta spostandosi verso una sorta di robotizzazione e uniformità del servizio, mentre l’essere umano, a prescindere dal ruolo che ha, cliente, cameriere, cuoco, etc., ha una grandezza che deve essere valorizzata. Ti faccio un esempio: da noi coltiviamo la biodiversità alimentare genetica, soprattutto grazie all’utilizzo di grani antichi, come, ad esempio, il grano Solina, originario dell’Abruzzo, o il Saragolla e il Senatore Cappelli, della mia amata Puglia, per fare a mano pane, pasta e pizza, garantendo più nutrienti rispetto ai grani moderni e maggiore digeribilità. Tutto il nostro personale conosce le qualità, le caratteristiche nutrizionali, i sapori e gli aromi di quello che serviamo, e il perché delle nostre scelte radicali, e trasferiscono queste conoscenze ai nostri clienti, a differenza di quello che può fare un QR Code o un pannello elettronico esposto con relativa app di prenotazione dei piatti. Certo, per fare in modo che il personale in servizio sia coinvolto in questo progetto di valorizzazione dei sapori e nutrienti antichi, vanno investiti tempo e risorse. Ma la risposta dei clienti a questo ritorno alle origini non ha prezzo.

È una filosofia della ristorazione: il cibo è filosofia di un popolo, memoria di un popolo. Lasciare che scompaia è un grave reato contro l’umanità, lasciare che la tecnologia sostituisca questa cultura millenaria, da cui otteniamo salute, benessere, bellezza, qualità e piacere, con una standardizzata, poco nutriente, se non dannosa, senza legami con il territorio e incivile è ancora peggio.

 

Claudio, che cos’è per te la sostenibilità nel tuo settore?

La sostenibilità nella ristorazione ha diverse sfaccettature: una riguardante la biodiversità, come ho già accennato, una sociale, una mentale, una etica, culturale ed economica. Il tutto, lasciami dire, è legato alla spiritualità: cioè, colui che lavora in maniera sostenibile non lo fa solo grazie all’idea di ridurre il proprio impatto ambientale o sociale, ma perché ha già lavorato su se stesso, a livello interiore, maturando una coscienza più consapevole di essere parte di un tutto. Non importa, come dicevo prima, che ruolo hai: cameriere, cuoco, pizzaiolo, lavapiatti, titolare, etc. Se hai fatto un percorso interiore che ti ha reso consapevole di essere parte di un tutto, non puoi lavorare in maniera insostenibile e incivile. Il leader, poi, ha un ruolo fondamentale: deve continuare a ricercare e a studiare per ricevere stimoli che lo accrescono e lo rendono sempre più in grado di trasferire alla sua squadra quanto appreso. Ecco, perché, in fondo, serve anche una sostenibilità religiosa: bisogna rispettare anche le diverse culture e religioni dei collaboratori, senza obbligarli ad adeguarsi alle esigenze del titolare, così da metterli nelle condizioni migliori di lavorare.

Insomma, bisogna lavorare sull’uomo e sulla sua sacralità (i suoi tempi, le sue abitudini, i suoi digiuni, le sue discipline, etc.) e a cascata sul resto.

Per fare tutto questo, serve sviluppare un modello di gestione del ristorante diverso, cioè, affiancare al profitto economico una motivazione olistica, in grado di fornire al team una motivazione interiore, sociale e spirituale, per fornire alla persona una ragione del suo lavoro.

 

Sostenibilità a tutto tondo, direi. Hai indicato per primo la biodiversità alimentare, facendomi venire in mente le battaglie di Vandana Shiva contro il saccheggio delle risorse naturali che fanno le grandi corporation, e che, anche in Italia, aprono i loro punti di ristorazione, spesso con cibo trash.

Grazie per il paragone con una grande donna come lei. Anch’io, come lei, credo che il cibo sia fonte di vita e non una merce come un’altra. Il cibo, cioè, deve tornare ad una logica nutritiva che esula dal paradigma economico del mero profitto, diversamente continueremo ad alimentare guerre e crisi alimentari. Ti cito anche un altro grande, Masanobu Fukuoka, un agronomo e filosofo giapponese che ha scritto il libro, «La rivoluzione del filo di paglia», in cui propone un approccio radicalmente diverso all’agricoltura e alla vita in generale. Pubblicato nel 1975, il libro è un manifesto dell’agricoltura naturale, un metodo che si oppone alle pratiche agricole moderne e industriali, promuovendo invece un’agricoltura in armonia con la natura. Il suo motto era “ La qualità del seme produrrà la qualità dei vostri pensieri”.

Ecco, per me nel settore della ristorazione il punto dovrebbe essere questo: noi vi diamo cibo, nutriamo o avveleniamo i vostri corpi, la qualità del seme a cui attingiamo produrrà la qualità, o meno, del cibo che vi daremo e, di conseguenza, del vostro benessere psico-fisico. Mangiare bene e sano è essenziale per pensare bene e in maniera sana. Mangiare cibo trash genera pensieri distorti: è una questione di pace nel mondo, mica poco, sai.

 

In effetti…e tu hai praticato concretamente quanto dici, anche in giro per il mondo, giusto?

 Ho assistito a diversi campi svolti con Salvatore Ceccarelli, Professore di Risorse Genetiche e Miglioramento Genetico alla facoltà di Agraria dell’università di Perugia fino al 1987; dal 1980 al 2011 è stato responsabile del progetto ICARDA in Siria, dove si è dedicato al miglioramento genetico del frumento tenero, frumento duro e orzo, in Siria, Giordania, Algeria, Etiopia, Eritrea, Yemen e Iran, con l’obiettivo di adattare le biodiversità ai cambiamenti climatici. In particolare, ho fatto dei campi con lui in Toscana e nelle Marche, in collaborazione con la Rete Semi Rurali, organizzazione italiana che promuove la biodiversità agricola e favorisce l’adattamento a fronte dei cambiamenti climatici.

Ho contribuito alla nascita di un ristorante con un concept tutto italiano a Bangalore, in India, al suo interno ideai una fattoria, in cui attualmente si sviluppa una cucina rurale pugliese. Un luogo con una sorta di indipendenza alimentare, dalla semina alla tavola, in contro-tendenza rispetto alle corporation nel settore alimentare che industrializzano il processo offrendo ai clienti cibo di dubbia qualità, con un impatto ambientale devastante e uno sociale da rabbrividire.

 

Quando ti ho conosciuto mi ha colpito una parte dei tuoi racconti, il tema del grano arso. Mi ha fatto tornare in mente un mio maestro, docente di economia civile, Luigino Bruni, quando parla di spigolatura, che, nella tradizione biblica, è il diritto dei poveri di raccogliere le spighe di grano rimaste nei campi dopo la mietitura. Questo gesto, richiesto dalla legge mosaica, rappresenta una forma di redistribuzione delle risorse che garantisce la sopravvivenza dei più deboli. Per Bruni, la spigolatura è molto più di un’antica pratica agricola: è una potente metafora per un’economia civile, inclusiva e giusta, in cui la ricchezza è condivisa e la dignità umana è rispettata. Attraverso la spigolatura, Bruni invita a riflettere su come costruire una società più equa e solidale, in cui i diritti dei più deboli sono protetti e promossi.

 In parte è proprio così, il pane è fatto direttamente da noi, con un impasto a mano, usando solo grani antichi; quando avanziamo a fine servizio serale qualche pagnotta di pane, lo utilizziamo trasformandolo in semola e, unendola a semole  fresche, produciamo paste fatte a mano da donare ad un’associazione benefica che aiuta le persone in difficoltà; esattamente come facevano un tempo, quando sapevano trasformare una necessità in un’opportunità culinaria.

Richiama l’idea di sacralità, come spiega Bruni, ed è davvero la metafora ideale per un’economia che dovrebbe essere senza scarti, inclusiva, rigenerativa. Ognuno nel suo piccolo può agire con questi valori, differenziandosi da un modo di fare economia e di lavorare, invece, distruttivo, predatorio, che genera scarti, senza radici in un’identità territoriale. Per me è fondamentale mantenere la ruralità di ciò che mangiamo, tenendo in vita i nostri territori e la loro biodiversità: significa tenere viva la memoria di chi siamo e serve per garantire un futuro davvero sostenibile per il pianeta e per le generazioni che verranno a seguire.

Ci sono mille modi per agire in tal senso: noi, ad esempio, tra le altre cose, abbiamo creato un’Accademia per la cultura e la conoscenza sensoriale degli OLI EVO di alta qualità, offrendo ai nostri ospiti, sia a pranzo che a cena, un loro assaggio, rinnovando la varietà mensilmente, al fine di far conoscere le biodiversità, facendo provare circa 600 varietà esistenti sul nostro territorio (un terzo del patrimoniale mondiale) e spiegando la distinzione sensoriale riguardanti le proprietà nutraceutiche e antiossidanti.

Produciamo le nostre pietanze senza l’uso di additivi, senza semi-lavorati, senza cibi processati, con effetti benefici sulla salute delle persone, soprattutto quelle con intolleranze alimentari.

Inoltre, produciamo sia pane, paste fresche e pizze, tutte  a mano, utilizzando solo grani antichi e paste madri per le lievitazioni (è cibo funzionale ricco di energie).

 

Claudio, che obiettivo hai per il futuro?

 Intanto, vorrei riprendere ciò che avevo iniziato prima della pandemia: accogliere i bambini delle scuole per spiegare loro il tema del corretto mangiare e del corretto nutrimento. È importante spiegare a loro e alle loro famiglie quanto ci siamo detti, c’è una sottovalutazione dell’importanza dei grani antichi, della loro cultura millenaria, del loro significato, del senso della vita che portano con loro, del collegamento tra corpo e pensieri, tra cibo sano e pensieri sani.

La cultura porta alla conoscenza, la conoscenza porta alla coscienza, la coscienza porta alla sostenibilità.

E poi vorrei trasformare il mio ristorante in una Società Benefit, con scopo duale, per essere esempi distintivi di un’attività che non mira solo al profitto, ma a qualcosa di molto più alto.

Da ultimo, vorrei fare rete con tutti coloro che hanno la stessa mia filosofia: per condividere conoscenze e risorse, per collaborazioni creative e innovative, per generare una community di supporto, per avere influenza sulle scelte politiche.

 

Claudio, mi piace chiedere, visto che siamo sulla piattaforma ROCK’N’SAFE, quale brano musicale ci associ a quanto ci siamo raccontati.

 Il brano «Meraviglioso» dei Negramaro, band pugliese, perché è un inno alla vita, al mare, alla terra e, soprattutto, alla meraviglia della natura nel suo insieme, che ci fa vivere in maniera meravigliosa anche quando crediamo di non avere niente.

 

 

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