“Che è? E adesso? Anche in cella mi mettete?
Aspettate, aspettate! Ma cercate di ragionare.
Portatemi dal giudice.
Aprite.
Ma come è possibile che potete fare quello che fate?
Scusi secondino …
Secondino una cippa di cazzo, Superiore!”.
Il protagonista di questo dialogo è Alberto Sordi, interprete del film “Detenuto in attesa di giudizio”.
Una delle rare performance drammatiche del grande attore italiano che nel 1972 gli sarebbe valsa sia l’Orso d’argento al Festival di Berlino che il David di Donatello come miglior attore protagonista.
Il film, alla sua uscita nelle sale, suscitò grande scalpore. Per la prima volta, attraverso un’opera artistica, veniva denunciata l’arretratezza e l’inadeguatezza sia del sistema giudiziario che di quello carcerario del nostro Paese.
E’ passato mezzo secolo da quel film ed in carcere ci sono stato anch’io.
L’ho fatto grazie all’amico Marcello Minuti. Sono stato, ospite suo e della Cooperativa Bee.4, all’interno dell’istituto di pena di Bollate.
Luogo di frontiera dove Marcello porta formazione e futuro e io la testimonianza del mio percorso di bimbo diventato adulto.
In questo carcere la cooperativa di Pino Cantatore offre lavoro e riscatto a chi è in attesa di ritornare a quella vita che noi facciamo tutti i giorni.
La prima volta mi ha lasciato un ricordo indelebile.
I controlli all’ingresso, il cellulare da cui ti devi separare (un toccasana ad essere sincero), il suono metallico della porta che si chiude alle tue spalle, e corridoi.
Corridoi lunghissimi che percorri cercando di adattare te stesso a quella sensazione di essere rinchiuso in una scatola, che pian piano si insinua nella tua mente.
Non è sicurezza quella che percepisci, ma privazione di un qualcosa che diamo per scontato: la possibilità di muoverci liberamente.
Corridoio dopo corridoio alla fine arrivi nel cuore del carcere e, come quando risali in superficie dopo un tuffo in mare, ritrovi qualcosa di familiare: scrivanie, sedie, la macchinetta del caffè, computer e persone che lavorano.
In un articolo apparso sul quotidiano Domani il 6 giugno del 2022 la giornalista Isabella De Silvestro scriveva che “Uno dei primi effetti della detenzione è l’acutizzarsi dell’udito, che cresce insieme ad un senso di paura. Dopo mesi sopraggiunge una sordità difensiva. Poi l’insieme di stimoli angoscianti viene appiattito nella quotidianità. Una delle conseguenze della prigionia è il precipitoso calo della vista, che continua a peggiorare durante tutta la durata della carcerazione.”.
Leggendo le storie di chi in carcere ci sta per lavorare o per scontare una pena riusciamo a capire quanto sia importante portare lavoro all’interno di questo luogo.
Si tratta, andando oltra la semplice mozione dei sentimenti, di una strategia che offre benefici ad ognuno di noi.
- Ci sono vantaggi per chi è in carcere a scontare una pena.
- Ci sono vantaggi per chi in carcere ci lavora.
- Ci sono vantaggi per chi sta fuori e si sente al sicuro perché i “cattivi” sono stati rinchiusi.
Per illustrare questi benefici prendo in prestito le parole del sito di Bee.4:
“Le carceri del nostro paese accolgono circa 60.000 persone.
Le ricerche condotte su questo argomento ci dicono che il carcere di per sé non è in grado di costruire soluzioni per assicurare un futuro migliore per le persone condannate, semmai si verifica il contrario.
Senza interventi specifici, senza strumenti capaci di intervenire sulle abitudini dei singoli, tre persone su quattro, esaurito il periodo di tempo della condanna, tornano a compiere reati.
Se invece durante il periodo della pena si realizzano inserimenti in percorsi di formazione e lavoro offrendo effettive opportunità di crescita professionale, questo dato crolla a poco più del dieci per cento.
Purtroppo, il numero di persone che lavorano in carcere è ancora troppo basso. Sono meno di mille i detenuti che lavorano alle dipendenze di imprese private svolgendo compiti e attività legate al mercato esterno.”.
Il tasso di recidiva tra chi non lavora durante il suo periodo di detenzione è del 75%, un valore che diventa poco più del 10% tra le persone realmente impegnate in attività lavorative.
- Riusciamo a comprendere che otteniamo sicurezza collettiva attraverso l’abbattimento della % di persone che una volta uscite dal carcere tornano a commettere reati?
- Riusciamo a comprendere che se riuscissimo a portare questa % al valore più basso, quello delle persone che lavorano, avremmo un gigantesco vantaggio collettivo sul fronte della sicurezza?
- Attraverso la costruzione di un percorso virtuoso interno al carcere renderemmo più sicura l’intera comunità.
- Senza dimenticare gli indubbi vantaggi economici per la collettività legati all’aumentare del numero di persone rinchiuse in carcere impegnate in reali attività lavorative.
Continuo attraverso le parole di Bee.4:
“Il lavoro in carcere rappresenta uno degli strumenti più capaci di riavvicinare la pena alle finalità previste dalla costituzione. Lavorare in carcere occupa il tempo della pena in maniera costruttiva, contribuisce a sviluppare professionalità e attitudine al lavoro, stimola le persone consentendo di non morire di ozio e permette di sostenere le famiglie all’esterno.
Nelle carceri in cui si lavora i problemi disciplinari sono meno frequenti, le persone hanno modo di dedicarsi ad altro che non alle dinamiche tipiche della vita di sezione. Inoltre, l’incidenza dei gesti di autolesionismo è molto più bassa, l’attività della polizia penitenziaria è più fluida ed in un contesto di questo tipo è più facile far emergere le condizioni per un cambiamento.
Lavorare in carcere è un’idea vincente, per tutti.”.
Vantaggi anche per chi in carcere ci lavora perché chi opera come addetto ed addetta della Polizia Penitenziaria si ritroverebbe a muoversi in un contesto più sicuro e con minori elementi di conflittualità.
Ogni volta che varco la porta di Bollate mi faccio sempre le stesse domande:
- Perché non è questo il modello che replichiamo il maggior numero di volte possibile?
- Perché non ci rendiamo conto che la strada è quella del 10% e non quella che porta al 75% di persone che tornano a compiere reati?
- Perché preferiamo l’insicurezza che si reitera costantemente ad un percorso che porterebbe ad un aumento della sicurezza individuale e collettiva?
Perché non portiamo lavoro dentro per esportare sicurezza fuori?
Nella mia ora di libertà – Fabrizio De André
Di respirare la stessa aria
D’un secondino non mi va
Perciò ho deciso di rinunciare
Alla mia ora di libertà
Se c’è qualcosa da spartire
Tra un prigioniero e il suo piantone
Che non sia l’aria di quel cortile
Voglio soltanto che sia prigione
Fonti:
https://bee4.org/chi-siamo-bee4/#lavorocarcere
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