La fretta non è una variabile sostenibile

di Silvana Carcano
La fretta non è una scelta sostenibile

Il percorso evolutivo della sostenibilità come “polmone” aziendale

In questo periodo sono decisamente aumentate le aziende che mi chiedono di supportarle su progetti genericamente definiti di sostenibilità; nel migliore dei casi, con una maggiore precisione, mi chiedono consulenza sul processo di reporting della sostenibilità, chi perché obbligate dalla nuova normativa europea (CSRD, in particolare) chi perché ha ricevuto questionari di difficile compilazione da parte di istituto di credito, clienti, fornitori, business partner.

E chi, fortunatamente, perché ha colto l’importanza di questi cambiamenti.

Una delle situazioni più comuni che mi trovo a dover affrontare è quella della richiesta di realizzare il processo di reporting nel giro di pochi mesi: “facciamo il bilancio del 2024 da marzo ad aprile 2025, giusto?”.

Ecco, no. Non è giusto.

Vi spiego il perché utilizzando una similitudine, paragonando la sostenibilità ai polmoni, il processo di reporting, in particolare, all’apparato respiratorio dell’azienda. I polmoni forniscono ossigeno all’organismo ed eliminano l’anidride carbonica presente nel sangue; un blocco a qualche parte dell’apparato respiratorio crea problemi a tutta la persona, fastidi, malattie, sofferenza, morte.

La sostenibilità, per stare nella similitudine, si ramifica lungo tutte le funzioni aziendali, abbraccia ogni persona coinvolta in un’organizzazione, da quella più centrale e di vertice, a quella più periferica e distante. Mira a eliminare ciò che non porta benessere all’azienda e alle sue persone (l’anidride carbonica) e a incrementare ciò che fa stare meglio il sistema (l’ossigeno). Il livello di saturazione della sostenibilità in un’organizzazione dovrebbe essere sempre garantito per evitare difficoltà nel mantenersi competitivi nel sistema economico.

Non esiste un punto d’arrivo della sostenibilità, si deve continuare a respirare e ad essere sostenibili, per tutta la vita di un’organizzazione.

Da questa similitudine estraggo alcune considerazioni volte a rispondere alla domanda iniziale “facciamo il bilancio del 2024 in due mesi”. Innanzitutto, respirare più velocemente non significa rendere più efficiente ed efficace l’organismo di riferimento. Anzi, accelerando la respirazione si corre il pericolo di mettere a rischio l’equilibrio con altri organi e funzioni, generando difficoltà e fatiche di vario genere.

Primo corollario di questa similitudine: bisogna respirare correttamente, in modo sano e col giusto ritmo. Fuori dalla similitudine: effettuare il processo di reporting richiede tempo, energia, formazione, preparazione, programmazione, coordinamento, persone, documentazione, processi, procedure, a partire dall’effettuazione dell’analisi di materialità (doppia), di impatto, di gestione del rischio (non solo economico-finanziario), di coinvolgimento degli stakeholder strategici, di raccolta dei dati per gli indicatori economici, sociali, ambientali, di governance, di racconto degli aspetti più qualitativi, del monitoraggio degli obiettivi definiti, della definizione di quelli futuri e della diffusione dei risultati.

Seconda considerazione: così come ci occupiamo della salute del nostro apparato respiratorio dovremmo occuparci anche dello stato di salute della sostenibilità della nostra organizzazione: prima di imbarcare tutta l’organizzazione nel processo di reporting andrebbe fatto un Piano strategico della sostenibilità con obiettivi a breve, medio e lungo termine. Andrebbero, inoltre, effettuati i vari “screening” della sostenibilità: a partire da una fotografia iniziale del livello culturale in tema di sostenibilità dell’organizzazione, sino all’attivazione di tutti i punti di misurazione dei consumi ambientali, o alla messa a terra dei valori e principi del Codice etico, o, ancora, a solo titolo d’esempio, alla valutazione dello stato di benessere dei propri collaboratori.

Terza considerazione: lo stato di salute non è lasciato al caso, ma si basa su un buon sistema di prevenzione. Nello stesso modo, le organizzazioni dovrebbero prevenire brutte sorprese adottando un buon metodo di misurazione, rendicontazione e valutazione della sostenibilità, monitorando tutti gli indicatori quali/quantitativi essenziali, tenendo attiva e florida la relazione con gli interlocutori strategici, verificando che il cambiamento che si vorrebbe generare sia effettivamente generato e mantenuto (e se, invece, eroso, valutando le cause e i relativi rimedi).

Il rischio, fuori dalla similitudine, è che si gestisca il tema della sostenibilità come fosse un tappeto: lo si pulisce ogni tanto, gli si toglie la polvere di dosso per sfoggiarlo in alcuni momenti specifici, per poi riporlo nell’armadio. E, quindi, si elencano i tanti progetti di beneficenza, a favore dell’ambiente o della comunità in cui si trova l’azienda, collocando questi progetti, rivestiti a oro, nel sito aziendale e postando foto sorridenti sui social e coi vari comunicati stampa. Eppure, senza una vera visione aziendale, la beneficenza, che sfocia spesso nella filantropia, anche quando rivestita a nuovo, nulla ha a che fare con la sostenibilità, soprattutto quando è scollegata dal senso di quell’organizzazione specifica, apportando pochi benefici e non generando nessun salto culturale e cambio di paradigma.

Ecco il punto: non si è sostenibili se non si è generato un cambio di paradigma economico rispetto a quello attuale, quello per cui le aziende producono ricchezza, rincorrendo solo la crescita e il profitto.

Un vero percorso verso uno sviluppo sostenibile di un’organizzazione (e, badate bene, si dice sviluppo sostenibile, non crescita sostenibile) richiede di togliere i “viluppi” (da qui sviluppo) che imbrigliano il modello di business e la mentalità dell’uomo economico a qualsiasi livello per aprirsi a una visione della gestione organizzativa rivoluzionata e trasformata (= con una nuova forma).

Chi ha in mente di essere “sostenibile” a tempo perso, solo sul sito aziendale e ragionando come si è sempre ragionato, può star certo che si confermerà nell’idea che la sostenibilità non serva a niente.

Per tutti gli altri, il mio suggerimento è di appoggiare la sostenibilità sulle fondamenta dell’economia civile (nata nel XVIII secolo in Italia), i cui solidi presupposti culturali possono vestire la sostenibilità di generatività, reciprocità, bene comune, felicità pubblica, fiducia, partecipazione e meritorietà, mirando a un cambio generativo dell’agire economico. In fondo, come disse il padre dell’economia civile, Antonio Genovesi, nel 1765: “È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza fare anche quella degli altri”.

 

 

Iscriviti alla community di rock’n’safe per ricevere contenuti esclusivi e inviti speciali ai nostri eventi!

Potrebbe interessarti

Lascia un commento