Da qualche giorno è stata messo in streaming la docuserie sui Beatles con la regia di uno qualsiasi: Peter Jackson. L’emozione è forte grazie alla qualità del video che sembra riportare in vita il grande gruppo britannico che, durante la composizione del loro ultimo album pubblicato, Leti it be, decisero di registrare sul modello del reality show. Altro che Grande Fratello.
È emozionante sentire i primi accordi che diedero luce a brani come Get Back, così come non può passare inosservato il gioco dei ruoli all’interno della band. Se ancora non fosse bastato abbiamo avuto la conferma che nella band c’erano due leader, Paul Mc Cartney e John Lennon, oltre George Harrison, figura ribelle, e Ringo Starr, la figura adattata. In qualche modo mi ricordano a livello di gerarchie i Pink Floyd e non è un caso che l’epilogo fu analogo a quello dei baronetti.
David Gilmour come Paul, Roger Waters come John, Richard Wright come George ed infine Nick Mason come Ringo.
È interessante osservare come le due leadership hanno effetti diversi nelle dinamiche del gruppo. La leadership di Paul Mc Cartney è sì autorevole, ma pecca molto di autoritarismo. Il suo fare autoritario, si fa come dico io, inevitabilmente va in contrasto con lo spirito ribelle di George Harrison che, non è un caso, è il primo ad abbandonare il gruppo. Quel tipo di leadership invece risulta essere calzante con Ringo Starr che si adatta e assorbe senza generare attriti.
Ben diversa è la natura della leadership di Sir Lennon che, da creativo e sognatore puro, è molto più in ascolto rispetto a Paul senza far trasparire cosa sta realmente pensando. A dire il vero l’atteggiamento di John sembra già alienarlo dalle dinamiche del gruppo, con Yoko Ono che le sta attaccato come una cozza in ogni inquadratura. Ciò che viene mostrato ai nostri occhi è che l’aurea di John non genera surriscaldamenti, se non in Paul che soffre il distacco fisico e mentale dal compagno di merende di sempre.
Mi sono fatto l’idea che l’autoritarismo di Paul sia stato alimentato dall’allontanamento di John il quale, per amor del gruppo, avrebbe potuto riconoscere questa dinamica e soddisfare il bisogno di importanza e unione di cui stava soffrendo l’amico. Ma forse John ormai aveva occhi e cuore per la criptica giapponese. Una figura pesante e onnipresente, cosa che non percepiamo minimamente, per esempio, dalla presenza di Linda (moglie di Paul) molto più indiscreta.
Al di là delle love stories e delle relative first ladies è interessante osservare come una leadership diffusa deve sapersi equilibrare e compensare. Se i leader non si guardano negli occhi e non operano in sintonia, potrebbero generare un bel danno. Se vogliamo guidare un team, se vogliamo accompagnarlo verso comportamenti sicuri dobbiamo lasciare il tono autoritario solo nei casi estremi in cui l’intervento di quel tipo è indispensabile. Per tutto il resto conta il coinvolgimento e soprattutto l’ascolto attivo.
Chissà cosa sarebbe successo se Paul non si sarebbe così imposto sul gruppo, lasciando spazio di parola e creativo a George e uno spiraglio a John per avvicinarsi anziché allontanarsi. E chissà cosa sarebbe successo se John avesse ascoltato con gli occhi il suo amico dimenarsi capendo che sarebbe stato funzionale ed etico avvicinarsi.
Con i se e con i ma non è mai stata fatta la storia, ma la storia ci può insegnare e far comprendere come evitare certi errori e comportarsi in modo da garantire coesione e spirito di appartenenza. Una decina di anni dopo caddero nella stessa trappola i Pink Floyd e a seguire molti altri.
Mi piace pensare che noi con i nostri team sapremo far di meglio.
Get back to where you once belonged!
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