La pratica collaborativa come strumento di governance della sostenibilità
La sostenibilità è un concetto così ampio che apre a innovazioni sociali non particolarmente evidenti. È il caso dei contratti collaborativi. Cosa sono? Come funzionano? Perché sono uno strumento di governance della sostenibilità?
L’ho chiesto a un avvocato particolare, un avvocato sostenibile, Laura Buzzolani.
Laura, prima di spiegarci esattamente in cosa consistono questi contratti, perché hai iniziato ad utilizzarli?
Sai, ad un certo punto della mia vita mi sono chiesta come potevo continuare ad essere un avvocato e percorrere i temi della sostenibilità ESG partendo da quello che sento come professionista: credo che la collaborazione renda migliori le dimensioni che tocchiamo. Così ho scoperto che potevo valorizzare le mie conoscenze giuridiche insieme a quelle di valutazione di impatto, ed è esattamente quello che sto cercando di fare approfondendo e rendendo reale uno strumento che ritengo molto innovativo: i contratti a struttura collaborativa.
In cosa consistono esattamente? E quali le differenze tra i contratti tradizionali e quelli a struttura collaborativa?
Di solito i contratti “tradizionali” (più o meno complessi che siano) vengono scritti da noi avvocati stando alla scrivania e ragionando sui diritti del nostro cliente: cerchiamo di metterlo, per dirlo un po’ alla romana (anche se io sono mezzo sangue siciliana…) in una “botte de’ fero” con clausole che lo proteggano in caso di problemi. Altrettanto fa l’avvocato dell’altra parte con il suo cliente. Ti immagini queste due botti di ferro quando affrontano problemi? Diventa tutto un tintinnare, uno contro l’altro, altro che risolvere il conflitto!
Ma c’è un modo diverso di scrivere i contratti che servono alle imprese. Alzarsi dalla scrivania e confrontarsi con chi questi contratti deve applicarli: clienti, agenti, fornitori, distributori. Insomma, con tutti quegli interlocutori coinvolti, a seconda del tipo di contratto, interni ed esterni, ed è il tipo di contratto stesso che, in una certa misura, suggerisce chi è opportuno coinvolgere.
Si tratta di attivare un percorso di consapevolezza pratica e giuridica delle aspettative e degli effetti, e tradurlo in un testo contrattuale: qualcosa di completamente diverso dal partire da schemi, modelli e posizioni contrattuali già prefigurate.
I contratti tradizionali evidenziano numerosi limiti rispetto a quelli a struttura collaborativa.
Sì, nei contratti tradizionali l’equilibrio dei diritti delle varie parti segna una sorta di confine realizzato dagli avvocati con clausole (per esempio, le penali e il recesso): il fatto è che quel confine, quando si inizia a litigare, diventa tutt’altro che netto e allora nasce la necessità di far decidere ad un giudice in tribunale o magari a un arbitro.
Peraltro, da diversi anni ci si è resi conto che per le imprese il costo e i tempi delle cause in tribunale sono rispettivamente alti e lunghi, e noi avvocati abbiamo fatto fronte a queste difficoltà in un modo molto contraddittorio. Abbiamo, infatti, continuato a scrivere contratti con le stesse clausole altamente conflittuali e in contrapposizione di diritti, e quando arriva il momento di applicarli ci troviamo sovente a dire ai nostri clienti «Guarda che è meglio se in tribunale non ci andiamo, perché è tutto molto incerto; ci sono alternative come la mediazione e la negoziazione».
Questo è del tutto illogico: prima ti confeziono un’armatura per proteggerti e poi ti dico che l’armatura non va bene e che è meglio avere un confronto con la controparte, utilizzando metodi che partono dagli interessi profondi e dalla relazione, invece che solo dal diritto. Qualcosa non va.
Anche perché, se nella mediazione e nella negoziazione si utilizzano gli stessi schemi di gestione del conflitto utilizzati nel contratto, la trattativa fallisce e porta a un vicolo cieco.
Tra l’altro, scusa se lo sottolineo, ma spesso i contratti sono una parte lavorativa mal sopportata e vengono chiusi in un cassetto il prima possibile…
È interessante il fatto che contratti così pensati e realizzati siano destinati a rimanere nel cassetto (come di solito avviene e hai sottolineato tu) fino a quando non si inizia a litigare (e allora si va a vedere «cosa dice il contratto»).
Hanno una storia diversa, invece, i contratti collaborativi che nascono e si sviluppano in modo co_partecipato: non è più l’avvocato che detiene lo scettro dello schema e del contenuto, bensì le parti coinvolte. Sono tutti gli interlocutori in causa che definiscono insieme schema e contenuti del contratto. Questa è la prima innovazione visibile. La seconda sta nel fatto che buona parte del contenuto è finalizzato a prevenire e auto_gestire il conflitto, e non ad attribuire torti e ragioni a qualcuno una volta generato il conflitto.
Insomma, i contratti a struttura collaborativa sono un bellissimo esempio pratico di dove il pensiero sistemico può portarci! Esagero?
Non credo sia un’esagerazione. Anche perché immagino che un’innovazione sociale come questa richieda una gran dose di coraggio per metterla in pratica. Immagina un dirigente aziendale che si apre a questa pratica per l’impresa per cui lavora. Non è facile…
Ci vuole una leadership interna molto attenta ai temi d’impatto sociale e di governance, e desiderosa di innovare: come per l’avvocato, anche per «chi comanda in azienda» si tratta di mettere in discussione il proprio modello tradizionale.
Può un imprenditore desiderare contratti che assicurino stabilità, buona gestione del rischio legale, miglioramento delle relazioni con le controparti, exit strategy rispettose di tutti gli interessi, invece che contratti pensati come scudi di protezione? Io credo che non solo possa farlo ma che debba farlo e che questo sia un banco di prova di una leadership ad elevato impatto sociale (e da cui possono ricavarsi anche degli indicatori molto importanti!).
Sai, credo che sia davvero un salto quantico nella gestione dei contratti. In fondo, tutta la nostra società attuale ha costruito i suoi presupposti su comportamenti egoici-bellici: a livello economico, politico, sociale, individuale, psicologico, educativo. Richiede un cambio comportamentale e interiore non indifferente: aprirsi all’altro non per risolvere eventuali conflitti, ma anche per provare a non far nascere conflitti, ove possibile. Sono strumenti che offrono una visione della realtà diversa da quella attuale. Grazie per proporci questo nuovo modo di intendere i contratti.
È così. Io li sto sperimentando e applicando, e imparo molto da questa pratica. Non per niente molto di quello che mi ispira nasce dall’incontro con i temi cari all’Economia Civile del prof. Stefano Zamagni, mentre la mia palestra è il metodo collaborativo acquisito in AIADC (Associazione Italiana dei Professionisti Collaborativi), di cui sono socia da qualche anno. All’interno di AIADC condivido il tema del raggiungimento della piena sostenibilità degli accordi per la gestione dei conflitti con tanti altri professionisti, anche commercialisti e psicologi, tutti appositamente formati. È una piccola rivoluzione in questo ambito, mi auguro che sia una pratica che possa prendere piede e diffondersi sempre più. Abbiamo bisogno di tutto ciò che possa aprirci a relazioni non conflittuali e volte al bene comune.
Esatto, come un fiammifero che si accende in una grotta buia: illumina anche se piccolo piccolo…
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