Ospite di Stefano Pancari oggi a B-SIDE: DJ Tubet, rapper e freestyler.
Mauro, raccontaci il tuo percorso artistico!
Vivo a Nimis, un piccolo paese all’estremo nord est Italia, vicino a quella che era la cortina di ferro. Fare qualcosa di urban in un contesto rurale è già di per sé rock ‘n’ roll!
Che tipo di contesto sociale vivi?
Sono cresciuto in una famiglia di contadini, in un contesto di gente semplice, nel friulano. Anche la lingua è il dialetto friulano, l’italiano viene dopo. La musica è l’ultima cosa a cui badano, è gente concreta.
Tu da quando hai la passione per la musica?
Da subito, ma in casa c’erano solo due cassette: Gianni Morandi e i Beatles. Ma a me piaceva tanto il rap, sono partito da lì, poi mi sono avvicinato al reggae e alla dance hall.
Non sei però il rapper che è nell’immaginario comune di oggi…
Non mi interessa fare il rapper che se la tira, mi interessa dire le cose vere e stare bene. Ho lavorato spesso coi ragazzi nelle scuole col freestyle. Si chiama Hip Hop Pedagogy. Entro nelle scuole usando il rap come strumento culturale, per veicolare altri messaggi. È capitato in conferenze con i rappresentanti della sicurezza, ma anche in quello che si chiama Teatro-scienza, su temi come matematica e fisica.
Quindi lavori spesso anche coi ragazzi?
Sì! Mi sono diplomato in agraria, ma poi ho studiato psicologia e sono educatore.
Un percorso di studi interessante, complimenti! Ma il mondo agricolo è sempre presente in qualche modo…
Sì, soprattutto da ragazzo. Ero produttore anche di vino! Mi sono preso le prime sbronze, ma poi ho visto che questa cosa mi impediva di giocare bene a basket e di rappare. Quando ho visto che potevo essere interessante dal punto di vista sociale facendo rime, ho deciso di dedicarmi alla musica. Organizzavo cortei studenteschi, frequentavo i centri sociali. Lì ho conosciuto la cultura straight edge, che viene dal punk, contro l’uso di droghe o alcool. Mi è piaciuta e ho deciso di usarla nel rap. Mi sono anche avvicinato allo Yoga.
Ti allontani quindi dallo stereotipo negativo degli eccessi?
La ribellione è fare le cose che ti fanno vivere e provare amore per ciò che fai. Lo stereotipo è che chi fa rap o reggae debba essere un drogato disagiato e debba celebrare questa cosa anche se non la vive. Non ha senso, dovresti rappresentare la tua comunità e cercare di servirla, portarla fuori e dialogarne. Questo era il significato originale dell’essere rapper come lo intendo io.
C’è un’anima rock in quello che dici…
Il rap deve molto al rock. Senza l’apporto dei bianchi alternativi al movimento dei club, un apporto discografico e sociale, il primo pioniere Africa Bambaataa non sarebbe uscito dal Bronx. Rock e rap sono due controculture che hanno in comune di non essere state accettate socialmente dall’alta classe.
Articolo e postproduzione video di Graziano Ventroni
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