Tra le letture che più mi hanno affascinato al liceo, un posto di primo piano lo occupa certamente l’ILIADE, poema epico che narra le gesta di tanti eroi sullo sfondo dell’ultimo anno della guerra di Troia. Dall’iroso Achille allo spregiudicato Agamennone, dall’astuto Ulisse al valoroso Patroclo; questi alcuni degli eroi che con la loro storia e con le loro imprese riempiono le pagine omeriche e emozionano il rapito lettore, che non può restare indifferente agli stimoli emotivi che riceve. Anch’io non ho potuto sottrarmi a questo coinvolgimento e mi ha particolarmente toccato la figura di Ettore, figlio di Priamo, fratello di Paride e – soprattutto – antagonista di Achille.
La storia che lega i due eroi è ben nota: Achille – profondamente scosso dall’uccisione in battaglia dell’amico Patroclo – sfida a duello il suo involontario assassino Ettore che, tradito dal travestimento di Patroclo, lo aveva ucciso scambiandolo per Achille stesso.
Achille si spinge fin sotto le mura di Troia e sfida Ettore urlandone il nome con tutta la sua forza.
Ed è così che improvvisamente mi assale l’angoscia dell’eroe troiano, che accetta la sfida mortale lanciatagli da Achille, pur sapendo in cuor suo quale possa essere il triste destino che lo attende.
D’altro canto Ettore sa bene che non può tirarsi indietro, non solo per dimostrare il suo valore, ma soprattutto perché sospinto verso lo scontro da Priamo, suo padre, e dall’intero popolo troiano, per salvare l’onore dell’intera città assediata dagli Achei.
La scena nella quale Ettore saluta per l’ultima volta la supplicante Andromaca ed il piccolo Astianatte è una delle più intense dell’epica omerica: le parole che gli vengono rivolte ed il rimpianto di non poter più godere dell’amore di sua moglie e di suo figlio non sono sufficienti a farlo retrocedere da quella missione che gli è stata affidata, che lo porterà ben consapevole verso una morte certa che puntualmente lo coglierà per mano di Achille.
Il mio pensiero è volato nella quotidianità che viviamo: talvolta al lavoro ci chiedono “sforzi” che sappiamo non essere in grado di sostenere, ci invitano ad assumere rischi cui non ci saremmo mai esposti se non condizionati dagli altri.
Quante volte abbiamo accettato di adottare un comportamento potenzialmente pericoloso solo per non sfigurare con gli altri colleghi, con i capi, quasi come se dovessimo “salvare il nostro onore”?
Le situazioni le conosciamo bene, senior arroganti che sfidano i giovani colleghi a stravolgere procedure di sicurezza, a disattendere le norme come se si dovesse celebrare una sorta di rito di iniziazione. Frasi del tipo “Dai, che ci vuole! Io l’ho fatto mille volte e non è mai successo niente!”, “Se non ce la fai, vorrà dire che lo farò io!”, “Che razza di giovane sei! Io all’età tua…” – tanto per citare le più frequenti – sono solo alcune delle esortazioni a correre dei rischi del tutto gratuiti e alle quali un giovane lavoratore non riesce spesso a sottrarsi. È capitato a me, sarà forse capitato anche a voi…
La ragione affonda le radici sempre e comunque in un problema culturale, in un errato modus operandi, con un campionario di cattivi esempi che noi senior continuiamo ad offrire a chi entra nel mondo professionale, contribuendo così a quella media di morti sul lavoro che oramai da tempo immemore è attestata in Italia intorno ai mille casi l’anno.
Raccolse al terminar di questi accenti / l’elmo dal suolo il generoso Ettore / e muta alla magion la via riprese / l’amata donna, riguardando indietro / e amaramente lagrimando”.
Diamo più forza ad Andromaca, lasciamo che la sua influenza su Ettore sia maggiore di quella del padre Priamo o dell’intero popolo troiano, affinché egli possa vivere il resto dei suoi giorni in compagnia della sua amata famiglia, senza vergogna o rimpianto.
Di sicuro non possiamo riscrivere questa parte dell’Iliade, ma forse possiamo contribuire a salvare oggi tante vite umane, che ancora possono avere la possibilità di emozionarsi.
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2 commenti
Complimenti per l’entusiasmo sempreverde a tenere vivo il tuo impegno, prima morale e poi professionale, mettendo in gioco le altre realtà del tuo modo di essere.
Grazie Maria Cristina per le belle parole. Sai bene quanto ti stimi e quanto di conseguenza apprezzi il tuo messaggio.
Il nostro mestiere, se interpretato nella maniera più “larga” possibile può avere un alto impatto sociale.